La liberalizzazione dell’economia degli ultimi decenni, con la conseguente riaffermazione della separazione tra Stato e società civile, l’impoverimento di masse fino a poco tempo fa benestanti da una parte, e con l’esponenziale crescita demografica di popolazioni poverissime dall’altra, porta ad un’unica conseguenza politica: lo stato non riesce più ad essere politicamente partecipato dalla classe lavoratrice. Lo Stato sociale viene così smantellato, il coinvolgimento democratico viene sospeso e lo Stato apparato non può che tornare a fare da cane da guardia agli interessi dei ceti egemoni.
Ceti che fondano la propria egemonia sulla concentrazione di capitale che la globalizzazione – ovvero l’insieme di istituzioni che ha permesso la liberalizzazione di questi capitali – ha portato all’estremo.
La natura denazionalizzata del capitale fa sì che le istituzioni più importanti vocate a promuovere la liberalizzazione del capitale siano «sovranazionali»; va da sé che queste istituzioni sono controllate da un numero molto ristretto di persone; ovvero da un’oligarchia economica.
La distruzione materiale e spirituale che ha colpito larghe fasce delle popolazioni del pianeta a causa della globalizzazione, ha reso – come ad es. si può vedere vicino a noi in Francia – la società sempre più instabile, per cui il malessere delle masse – a cui appartengono coloro che vengono chiamati i «perdenti della globalizzazione» – viene sedato dai mass media e dal massiccio uso di credito facile. E la possibilità di indebitarsi per mantenere il tenore di vita che una retribuzione dignitosa permetterebbe è un gioco che – come già sappiamo bene! – non può durare all’infinito.
Ma prima o poi queste tensioni sociali devono sfogarsi in qualche modo: i miliardi di persone che attendono passivamente il «rientro morbido» demografico-malthusiano devono in qualche modo essere politicamente gestite quando la rabbia, la fame e l’impotenza, portano a livelli insostenibili la pressione sociale. Ecco che nasce, come esigenza tecnocratica del capitalismo maturo, il fascismo; fenomeno che oggi appare come una tirannia sempre più mondializzata.
Le parole dell’economista e sociologo Streeck non lasciano dubbi in merito [https://lafabrique.fr/en-finir-avec-leurope/]: «Ci si potrebbe chiedere quale forma di oppio per il popolo si inventeranno i profittatori del tardo capitalismo quando il doping del credito della globalizzazione cesserà di funzionare, e quando sarà necessario stabilire una dittatura stabile degli “uomini del denaro”. Speriamo solo che finiscano le idee.»
Ridotto al «minimo» lo Stato come come vuole il dogma liberista, ovvero smantellato lo Stato sociale, rimane solo lo Stato apparato con la funzioni primarie di garanzia dell’ordine e repressione del malcontento.
Ma non basta: se l’ideologia neoliberale riprende con la scusa dell’ambientalismo e della sovrappopolazione il dogma del vincolo monetario per contenere i consumi – e quindi i redditi – delle plebi, dall’altra riprende il concetto ottocentesco di «lavoro merce» e legittima di nuovo la circolazione forzata dei lavoratori insieme alla circolazione senza controlli di merci e capitali. La conflittualità sociale, quindi, aumenta esponenzialmente non solo a causa dell’impoverimento generalizzato, ma anche a causa della ghettizzazione dei centri abitati che si trovano ad ospitare i lavoratori immigrati.
Con i tagli alla spesa pubblica e lo smantellamento dei servizi offerti dallo Stato, la necessità di controllare le forze dell’ordine e di garantire che queste agiscano negli esclusivi interessi degli “uomini del denaro”, alcune proposte dal sapore distopico sono già nel cassetto, a partire dalla vicina Francia: «Come dettagliato nel Libro bianco sulla sicurezza nazionale [francese] prevista per il 2020, le società di sicurezza private potrebbero accettare le missioni attualmente svolte dalle forze di sicurezza statali».
Le forze dell’ordine potrebbero essere progressivamente “privatizzate” e, come nel caso di Eurogendfor, potrebbero essere composte da guardie straniere (o immigrate), con la possibilità di avere agenti privi di qualsiasi empatia nel caso di repressioni violente.
Lo «Stato minimo» voluto dai liberisti è questo qui: una tirannia che fino a quando può anestetizza e instupidisce le masse oppresse, e, quando la sofferenza sociale diventa dilagante, provvede a reprimere violentemente le proteste.
E questo è tutto ciò che la nostra Costituzione non voleva che si ripetesse, dato che le conseguenze del «libero mercato» erano ben note ai Padri costituenti e il fascismo italiano era considerato un effetto dell’insostenibilità sociale del «governo internazionale dei mercati». (Mussolini fu negli anni ‘20 uno dei più efficaci politici a propugnare l’austerità, i vincoli monetari – Quota 90 – e tutto il pacchetto di ricette che gli oligopoli finanziari internazionali ancora oggi impongono alle nazioni, celandosi dietro l’anonima etichetta di «mercati». Il fascismo servì olio di ricino e manganellate proprio per accontentare i grandi creditori internazionali che avevano finanziato la prima guerra mondiale).
L’antifascismo della Costituzione italiana del’48 si espresse proprio nel tentativo di edificare istituzioni che impedissero le condizioni stesse che portarono alle derive totalitarie novecentesche, tutte nate sotto la spinta di insostenibili condizioni economiche e sociopolitiche indotte dal «libero mercato».
La stragrande maggioranza dei nostri costituenti recepirono così il paradigma economico keynesiano proprio per il fatto che questo si rivelava funzionale all’effettività della democrazia; ovvero propugnava una serie di provvedimenti sociali ed economici ritenuti condizione necessaria utile alla prevenzione di qualsiasi forma di autoritarismo.
Ed è così che Sylos Labini nella «Commissione per lo studio dei problemi del lavoro», a proposito dei possibili effetti benefici del «moltiplicatore keynesiano», ovvero della capacità della spesa pubblica di generare una quantità di reddito più che proporzionale, fa notare come: «…in una società prevalentemente privatistica [come quella neoliberale di oggi, ndB] e in periodo di depressione ciclica una vasta politica di opere pubbliche non può in nessun caso costituire il fattore determinante della ripresa produttiva; una tale politica può solo affrettare la ripresa e può, quindi, portare un effettivo ed efficace contributo alla soluzione del problema della disoccupazione quando si verifichino certe condizioni e quando sia accompagnata da una serie di altri interventi statali. Ora, poiché l’esperienza ha dimostrato che lo Stato, specialmente durante le crisi, non può assolutamente sottrarsi dall’intervenire, e poiché gli interventi statali, attuati sotto la pressione della necessità, si manifestano spesso contraddittori, tanto vale cercare di prevenire il male invece di reprimerlo. Sono queste in sostanza le considerazioni che, come si è già accennato, possono consigliare un intervento sistematico e generale dello Stato nell’economia, possono consigliare cioè una pianificazione dell’economia. Una politica di opere pubbliche che s’inserisse in una pianificazione dell’economia avrebbe un significato del tutto diverso da quello che ha una politica di opere pubbliche perseguita isolatamente… Non si cerca quindi ancora di impedire alle crisi di manifestarsi e di sanare in modo non transitorio il conflitto tra interesse individuale e interesse sociale. Si vuole solo ridurre al minimo tale conflitto ed attenuare l’asprezza delle fluttuazioni cicliche. Tuttavia la politica delle opere pubbliche in funzione anticiclica costituisce, se è attuata, un ulteriore passo verso la generale pianificazione dell’economia.»
E cosa rende così insostenibile la tensione sociale nel capitalismo tanto che il potere costituito sia inevitabilmente tentato di reprimere violentemente lo scontento? Risposta: il conflitto tra “privatistico” interesse individuale e interesse generale.
E quali sono i sintomi più importanti di questo conflitto?
Sempre Sylos Labini: «La disoccupazione permanente…è uno degli indici più caratteristici del conflitto esistente fra interesse individuale e interesse sociale, fra interesse di coloro che sono economicamente più forti e interesse della società nel suo complesso».
Ovvero i nostri Padri costituenti si preoccupavano di realizzare una Repubblica in cui lo Stato intervenisse «keynesianamente» – tramite la spesa pubblica – a garantire la piena occupazione, perché il liberalismo economico crea un insanabile conflitto sociale che, come si è ripetutamente visto nel passato e come si vede oggi, porta alla violenza politica.
Ancora Sylos Labini: «…il mercato, lasciato completamente a se stesso, è, sì, indice dei valori [dei prezzi], ma, poiché dietro i valori ci sono gli uomini, il mercato è indice della forza economica, cioè della capacità di acquisto dei vari uomini. E quando coloro che hanno una capacità di acquisto inferiore a quella necessaria a soddisfare almeno i bisogni vitali divengono via via più numerosi, divengono addirittura la maggioranza, il conflitto fra interesse individuale, cioè fra interesse dei più forti, e interesse sociale è evidentissimo…. La pianificazione eliminerebbe il conflitto fra interesse individuale e interesse sociale, appunto perché lo Stato, predisponendo il piano, avrebbe di mira quella che potrebbe esser definita la scala sociale dei bisogni».
L’Unione Europea istituzionalizzando il «liberalismo economico» sta velocemente conducendo alla tirannia che i Padri delle democrazie moderne avevano intenzione di impedire definitivamente tramite l’intervento economico e sociale dello Stato: lo stesso Stato che oggi la UE vincola in assurde regole di bilancio e che obbliga all’austerità a beneficio dei creditori esteri.
Con buona pace della dignità della persona umana e dei fini sociali a cui dovrebbe essere volta l’attività economica.
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Autoritarismo, Keynes e Costituzione
La liberalizzazione dell’economia degli ultimi decenni, con la conseguente riaffermazione della separazione tra Stato e società civile, l’impoverimento di masse fino a poco tempo fa benestanti da una parte, e con l’esponenziale crescita demografica di popolazioni poverissime dall’altra, porta ad un’unica conseguenza politica: lo stato non riesce più ad essere politicamente partecipato dalla classe lavoratrice. Lo Stato sociale viene così smantellato, il coinvolgimento democratico viene sospeso e lo Stato apparato non può che tornare a fare da cane da guardia agli interessi dei ceti egemoni.
Ceti che fondano la propria egemonia sulla concentrazione di capitale che la globalizzazione – ovvero l’insieme di istituzioni che ha permesso la liberalizzazione di questi capitali – ha portato all’estremo.
La natura denazionalizzata del capitale fa sì che le istituzioni più importanti vocate a promuovere la liberalizzazione del capitale siano «sovranazionali»; va da sé che queste istituzioni sono controllate da un numero molto ristretto di persone; ovvero da un’oligarchia economica.
La distruzione materiale e spirituale che ha colpito larghe fasce delle popolazioni del pianeta a causa della globalizzazione, ha reso – come ad es. si può vedere vicino a noi in Francia – la società sempre più instabile, per cui il malessere delle masse – a cui appartengono coloro che vengono chiamati i «perdenti della globalizzazione» – viene sedato dai mass media e dal massiccio uso di credito facile. E la possibilità di indebitarsi per mantenere il tenore di vita che una retribuzione dignitosa permetterebbe è un gioco che – come già sappiamo bene! – non può durare all’infinito.
Ma prima o poi queste tensioni sociali devono sfogarsi in qualche modo: i miliardi di persone che attendono passivamente il «rientro morbido» demografico-malthusiano devono in qualche modo essere politicamente gestite quando la rabbia, la fame e l’impotenza, portano a livelli insostenibili la pressione sociale. Ecco che nasce, come esigenza tecnocratica del capitalismo maturo, il fascismo; fenomeno che oggi appare come una tirannia sempre più mondializzata.
Le parole dell’economista e sociologo Streeck non lasciano dubbi in merito [https://lafabrique.fr/en-finir-avec-leurope/]: «Ci si potrebbe chiedere quale forma di oppio per il popolo si inventeranno i profittatori del tardo capitalismo quando il doping del credito della globalizzazione cesserà di funzionare, e quando sarà necessario stabilire una dittatura stabile degli “uomini del denaro”. Speriamo solo che finiscano le idee.»
Ridotto al «minimo» lo Stato come come vuole il dogma liberista, ovvero smantellato lo Stato sociale, rimane solo lo Stato apparato con la funzioni primarie di garanzia dell’ordine e repressione del malcontento.
Ma non basta: se l’ideologia neoliberale riprende con la scusa dell’ambientalismo e della sovrappopolazione il dogma del vincolo monetario per contenere i consumi – e quindi i redditi – delle plebi, dall’altra riprende il concetto ottocentesco di «lavoro merce» e legittima di nuovo la circolazione forzata dei lavoratori insieme alla circolazione senza controlli di merci e capitali. La conflittualità sociale, quindi, aumenta esponenzialmente non solo a causa dell’impoverimento generalizzato, ma anche a causa della ghettizzazione dei centri abitati che si trovano ad ospitare i lavoratori immigrati.
Con i tagli alla spesa pubblica e lo smantellamento dei servizi offerti dallo Stato, la necessità di controllare le forze dell’ordine e di garantire che queste agiscano negli esclusivi interessi degli “uomini del denaro”, alcune proposte dal sapore distopico sono già nel cassetto, a partire dalla vicina Francia: «Come dettagliato nel Libro bianco sulla sicurezza nazionale [francese] prevista per il 2020, le società di sicurezza private potrebbero accettare le missioni attualmente svolte dalle forze di sicurezza statali».
Le forze dell’ordine potrebbero essere progressivamente “privatizzate” e, come nel caso di Eurogendfor, potrebbero essere composte da guardie straniere (o immigrate), con la possibilità di avere agenti privi di qualsiasi empatia nel caso di repressioni violente.
Lo «Stato minimo» voluto dai liberisti è questo qui: una tirannia che fino a quando può anestetizza e instupidisce le masse oppresse, e, quando la sofferenza sociale diventa dilagante, provvede a reprimere violentemente le proteste.
E questo è tutto ciò che la nostra Costituzione non voleva che si ripetesse, dato che le conseguenze del «libero mercato» erano ben note ai Padri costituenti e il fascismo italiano era considerato un effetto dell’insostenibilità sociale del «governo internazionale dei mercati». (Mussolini fu negli anni ‘20 uno dei più efficaci politici a propugnare l’austerità, i vincoli monetari – Quota 90 – e tutto il pacchetto di ricette che gli oligopoli finanziari internazionali ancora oggi impongono alle nazioni, celandosi dietro l’anonima etichetta di «mercati». Il fascismo servì olio di ricino e manganellate proprio per accontentare i grandi creditori internazionali che avevano finanziato la prima guerra mondiale).
L’antifascismo della Costituzione italiana del’48 si espresse proprio nel tentativo di edificare istituzioni che impedissero le condizioni stesse che portarono alle derive totalitarie novecentesche, tutte nate sotto la spinta di insostenibili condizioni economiche e sociopolitiche indotte dal «libero mercato».
La stragrande maggioranza dei nostri costituenti recepirono così il paradigma economico keynesiano proprio per il fatto che questo si rivelava funzionale all’effettività della democrazia; ovvero propugnava una serie di provvedimenti sociali ed economici ritenuti condizione necessaria utile alla prevenzione di qualsiasi forma di autoritarismo.
Ed è così che Sylos Labini nella «Commissione per lo studio dei problemi del lavoro», a proposito dei possibili effetti benefici del «moltiplicatore keynesiano», ovvero della capacità della spesa pubblica di generare una quantità di reddito più che proporzionale, fa notare come: «…in una società prevalentemente privatistica [come quella neoliberale di oggi, ndB] e in periodo di depressione ciclica una vasta politica di opere pubbliche non può in nessun caso costituire il fattore determinante della ripresa produttiva; una tale politica può solo affrettare la ripresa e può, quindi, portare un effettivo ed efficace contributo alla soluzione del problema della disoccupazione quando si verifichino certe condizioni e quando sia accompagnata da una serie di altri interventi statali. Ora, poiché l’esperienza ha dimostrato che lo Stato, specialmente durante le crisi, non può assolutamente sottrarsi dall’intervenire, e poiché gli interventi statali, attuati sotto la pressione della necessità, si manifestano spesso contraddittori, tanto vale cercare di prevenire il male invece di reprimerlo. Sono queste in sostanza le considerazioni che, come si è già accennato, possono consigliare un intervento sistematico e generale dello Stato nell’economia, possono consigliare cioè una pianificazione dell’economia. Una politica di opere pubbliche che s’inserisse in una pianificazione dell’economia avrebbe un significato del tutto diverso da quello che ha una politica di opere pubbliche perseguita isolatamente… Non si cerca quindi ancora di impedire alle crisi di manifestarsi e di sanare in modo non transitorio il conflitto tra interesse individuale e interesse sociale. Si vuole solo ridurre al minimo tale conflitto ed attenuare l’asprezza delle fluttuazioni cicliche. Tuttavia la politica delle opere pubbliche in funzione anticiclica costituisce, se è attuata, un ulteriore passo verso la generale pianificazione dell’economia.»
E cosa rende così insostenibile la tensione sociale nel capitalismo tanto che il potere costituito sia inevitabilmente tentato di reprimere violentemente lo scontento? Risposta: il conflitto tra “privatistico” interesse individuale e interesse generale.
E quali sono i sintomi più importanti di questo conflitto?
Sempre Sylos Labini: «La disoccupazione permanente…è uno degli indici più caratteristici del conflitto esistente fra interesse individuale e interesse sociale, fra interesse di coloro che sono economicamente più forti e interesse della società nel suo complesso».
Ovvero i nostri Padri costituenti si preoccupavano di realizzare una Repubblica in cui lo Stato intervenisse «keynesianamente» – tramite la spesa pubblica – a garantire la piena occupazione, perché il liberalismo economico crea un insanabile conflitto sociale che, come si è ripetutamente visto nel passato e come si vede oggi, porta alla violenza politica.
Ancora Sylos Labini: «…il mercato, lasciato completamente a se stesso, è, sì, indice dei valori [dei prezzi], ma, poiché dietro i valori ci sono gli uomini, il mercato è indice della forza economica, cioè della capacità di acquisto dei vari uomini. E quando coloro che hanno una capacità di acquisto inferiore a quella necessaria a soddisfare almeno i bisogni vitali divengono via via più numerosi, divengono addirittura la maggioranza, il conflitto fra interesse individuale, cioè fra interesse dei più forti, e interesse sociale è evidentissimo…. La pianificazione eliminerebbe il conflitto fra interesse individuale e interesse sociale, appunto perché lo Stato, predisponendo il piano, avrebbe di mira quella che potrebbe esser definita la scala sociale dei bisogni».
L’Unione Europea istituzionalizzando il «liberalismo economico» sta velocemente conducendo alla tirannia che i Padri delle democrazie moderne avevano intenzione di impedire definitivamente tramite l’intervento economico e sociale dello Stato: lo stesso Stato che oggi la UE vincola in assurde regole di bilancio e che obbliga all’austerità a beneficio dei creditori esteri.
Con buona pace della dignità della persona umana e dei fini sociali a cui dovrebbe essere volta l’attività economica.
01/12/2019 di Bazzar
(Fonti e approfondimenti: https://orizzonte48.blogspot.com/2019/11/come-di-consueto-sempre-di-notte-sempre.html ; https://orizzonte48.blogspot.com/2019/11/lintento-dei-costituenti-il-rispetto.html);