23 giugno 2016. Siamo arrivati alla data del temutissimo voto sul referendum britannico, in cui gli Inglesi sono chiamati a scegliere se restare (remain) nell’Unione Europea o uscirne (leave).
I dibattiti televisivi e le testate giornalistiche nostrane affrontano ogni giorno il tema dal punto di vista europeo, divulgando le opinioni di vari economisti, politologi o esperti di altro genere, secondo la quasi totalità dei quali la Brexit sarebbe “una catastrofe” per l’Europa.
Poiché, come più volte si è sottolineato in questa ed altre sedi, l’informazione in Italia e in Europa non è affatto libera, bensì condizionata, a volte censurata ed in varie modalità asservita alle lobby che di fatto esercitano il potere muovendo dall’alto i fili dei burattini della politica, ritengo doveroso chiarire alcuni punti, che dovrebbero aiutare chi ha la bontà di leggermi a vedere un po’ oltre la cortina fumogena opportunamente diffusa dalla propaganda UE.
In primis, va evidenziato il solito, abusato “trucchetto” comunicativo usato dalla propaganda per confondere le idee e veicolare concetti utili a chi la utilizza, cioè quello di giocare con le parole: si usa impropriamente il termine “Europa” per intendere “Unione Europea”. Quindi si parla di “crisi dell’Europa”, “valori europei”, e via dicendo, quando invece si intende parlare dell’UE, che con l’Europa continentale non coincide per nulla.
Dovremmo tener ben presente, pertanto, che l’Europa c’era prima che nascesse la UE, la CEE o ogni altro organismo sovranazionale simile, e che continuerà ad esserci anche dopo che gli stessi cesseranno di esistere.
E proprio pensando bene a ciò che è davvero l’Europa (non la UE), dovremmo ricordare che essa è un coacervo di culture, lingue, tradizioni, costumi, religioni ed etnie diverse, da sempre fra loro comunicanti ed interagenti, ma profondamente distinte ed eterogenee.
Basta uno sguardo alla storia dell’ultimo millennio per rendersi conto che qualsiasi pretesa Unione federale europea o comunque si voglia chiamarla, che voglia imbrigliare tutte le suddette diversità sotto un unico governo accentrato, sia un progetto folle, più che utopico: folle ed immensamente pericoloso.
Quindi il “percorso verso la maggiore integrazione” che i sognatori degli USE (Stati Uniti d’Europa) propongono come unico tramite per raggiungere la “stabilità” e migliorare l’UE di oggi, emendandola dai difetti che ormai nessuno più nemmeno nega, è la più grande mistificazione che si possa pensare.
Orbene, accade che uno dei più antichi, solidi, influenti ed indubbiamente autonomi Stati europei, ovvero la Gran Bretagna, sia perfettamente consapevole di tutto questo.
Gli Inglesi non hanno mai rinunciato alle loro peculiarità, nemmeno le più “stravaganti”, rispetto agli standard degli altri Paesi europei, come la guida a sinistra, le unità di misura del peso (oncia invece del grammo) o dello spazio (piedi e miglia invece di metri); non hanno aderito all’euro; non hanno firmato il fiscal compact. Sono gelosissimi delle proprie tradizioni; la loro lingua è la lingua internazionale per eccellenza; si sono addirittura “creati” una religione cristiana che fa capo al proprio sovrano, con la riforma anglicana.
Mi sembra non ci sia molto da stupirsi dunque se, dopo alcuni anni di permanenza nell’UE, abbiano realizzato che la loro autonomia è stata fortemente menomata dall’adesione ai Trattati fondamentali dell’Ue, deprivando il loro Parlamento (insieme a quelli di tutti gli altri Paesi membri) del reale potere legislativo e compromettendo altresì l’indipendenza del loro sistema giudiziario, oltre che politico.
Questo perché, come non tutti sanno, l’appartenenza all’UE significa accettazione necessaria della supremazia delle normative europee su quelle nazionali, che si traduce nell’obbligo di ratificare o applicare direttamente nel proprio Paese le leggi decise a Bruxelles (dove chi le scrive non è il Parlamento europeo, che può soltanto approvarle, ma la Commissione europea, organo non eletto ma composto di soggetti a nomina diretta) e nell’obbligo per i giudici nazionali di conformarsi alle decisioni prese dalle Corti di Giustizia europee.
In altre parole: i Parlamentari devono solo copiare integralmente le leggi UE per trasformarle in leggi nazionali, o comunque legiferare sempre nel rispetto delle direttive e dei principi UE, pena l’illegittimità delle leggi stesse, se confliggenti col sistema europeo; i giudici devono disapplicare le leggi nazionali contrastanti con quelle UE (senza nemmeno impugnarle prima) o, comunque, decidere i processi nel rispetto delle decisioni già prese dalle Corti sovranazionali.
Ciò vale a tutti i livelli ed in tutte le materie. Ne è scaturito spesso un conflitto fra le posizioni delle Corti costituzionali nazionali (ad esempio tedesca o italiana, oltre che inglese) e le Corti europee, in quanto le Costituzioni nazionali impongono ai propri Parlamenti e giudici la tutela di principi e valori che non sempre sono presenti anche nei trattati UE, o che comunque hanno in essi rilievo minoritario.
Dalla presa di coscienza dei suddetti vincoli e dei problemi che ne conseguono, che i giudici inglesi in primis, ma anche molti politici, professori, economisti, e giuristi britannici hanno rilevato e segnalato nella loro gravità, nasce l’idea del referendum per la Brexit. Contrariamente a quanto si pensa, le ragioni dell’opinione favorevole all’uscita dall’UE, sono di ordine più politico e giuridico, che economico.
Per questo, vista l’impossibilità di contrapporre dei vantaggi in caso di “remain” per il Regno Unito ed il suo sistema democratico sotto i suddetti profili, i termini del dibattito in Europa sono centrati esclusivamente sugli aspetti economici della questione.
Non c’è da stupirsene, peraltro, visto che il sistema UE si fonda intrinsecamente su ragioni economiche, e precisamente di mercato. Ma tralasciare del tutto le considerazioni relative allo svuotamento della democrazia avvenuto nella UE, come se si trattasse di dettagli poco rilevanti, è poco lungimirante oltre che comunicativamente scorretto.
Quindi, il secondo “trucchetto” usato dalla propaganda filoeuropeista sta nel ridurre i termini della questione al discorso puramente economico, valutando unicamente i pro ed i contro di un’eventuale uscita sotto tale aspetto.
Preso atto di ciò, si può comunque analizzare anche su tale terreno la veridicità, quanto meno sotto il profilo della coerenza e dei principi economici, delle argomentazioni usate.
La prima conseguenza che si prevede in caso di Brexit è una svalutazione della sterlina. Essa sarebbe dovuta alla reazione nervosa dei “mercati” alla notizia, a causa dell’incertezza su cosa accadrà dopo. In altre parole, il prefigurare scenari apocalittici o comunque tenebrosi per il Regno unito fuori dall’UE, alimenta le paure degli investitori che, quindi, venderanno sterline temendone il deprezzamento ed – in tal modo – lo cagioneranno. La svalutazione sarà poi “spinta” anche dai grandi speculatori (tipo Soros, per intenderci) che giocheranno al ribasso sulla sterlina per poi lucrare dal futuro recupero del suo valore.
Questo però lascia intendere come la predetta svalutazione, che è probabile vi sarà, avrà quasi certamente natura transitoria: calmatesi le acque, non c’è un vero motivo per cui la sterlina debba restare “bassa”. Anzi, semmai si possono ragionevolmente anticipare le ragioni per cui non potrà restarlo, ma si riapprezzerà in tempi brevi: la prima è che una sterlina troppo debole favorirebbe enormemente l’export britannico, penalizzando al contempo quello dei Paesi UE concorrenti, che perderebbero di competitività sul prezzo dei beni.
Il secondo è che la stessa sterlina debole frenerebbe le esportazioni dell’UE verso la GB, che è uno dei principali mercati di sbocco dell’export europeo, e questo farebbe molto male alle imprese del continente.
Infine, la sterlina svalutata sarebbe un disastro per i creditori della GB, che di certo non solo soltanto Inglesi.
Quindi è evidente come la sterlina bassa sarebbe un problema per la maggior parte di coloro che operano sul mercato (e che infatti temono la Brexit) ma proprio per questo, i suoi attori principali interverrebbero presto per farla risalire a livelli accettabili.
L’altro argomento usato per convincere che la GB fa meglio a restare in UE, è il presunto pericolo di un isolamento del Regno Unito rispetto alla piazza europea, a causa del decadere degli accordi commerciali e di libera circolazione contenuti nei trattati UE.
Questo “spauracchio” non tiene conto del fatto che la Brexit non sarebbe di certo simultanea all’uscita dei risultati referendari, ma avverrebbe a seguito di un percorso legislativo condotto dal Governo britannico, che ovviamente si premurerebbe di regolare la fase transitoria. Ed è naturale che le regole vigenti resterebbero in vigore sino alla loro formale abrogazione da parte di leggi nuove, basate sui nuovi accordi, i quali non verrebbero di certo pensati per alzare muri fra la GB e il resto d’Europa, ma soltanto per rivedere gli aspetti critici (cioè svantaggiosi per il Regno Unito) che L’UE sarebbe costretta a modificare. E possiamo stare certi che la forza contrattuale di un Paese come l’UK, per tutti i motivi sopra detti, non sparirebbe di certo nello spazio di un mattino, perché è uscita dall’UE, anzi.
Quindi, nonostante le puerili minacce di Schauble, l’UE non avrà altra scelta, in caso di Brexit, che rifare gli accordi con l’UK, restituendole la sovranità – e quindi l’ultima parola – sotto tutti i profili istituzionali e di governo.
E’ possibile che tale percorso di rinegoziazione abbia tempi lunghi (anche se a tutti converrà sbrigarsi), ma in ogni caso, per riportare la serenità sui mercati basteranno le dichiarazioni rassicuranti delle parti in gioco, cioè dei vari leader e rappresentanti delle Istituzioni britanniche ed europee, sul certamente positivo esito del percorso stesso. Si è già visto più volte come una semplice frase detta da Draghi o da Cameron abbia il potere di infuocare o placare le borse.
C’è infine chi prevede un periodo di instabilità politica, dovuto a possibili dimissioni del Premier Cameron se vincesse il “leave”. Il punto è quanto meno incerto, ma comunque a mio avviso improbabile: Cameron non ha ragioni di dimettersi, a meno che non venga costretto da ragioni allo stato non visibili, ma anzi ha l’interesse a restare alla guida del Paese per poter dire “io l’avevo detto” se le cose dovessero mettersi male, o per poter rivendicare il proprio merito, avendo dato agli Inglesi la possibilità di votare al referendum, nella più probabile ipotesi in cui le cose dovessero andare meglio del previsto.
Il vero pericolo che deriverebbe dalla vittoria del “Brexit”, dunque, non è certamente per l’economia inglese. Al contrario, chi rischia di più sono le economie dei Paesi concorrenti con la GB sul mercato e, ancora di più, le istituzioni europee, che si vedrebbero sfilato da sotto il naso il controllo su una delle maggiori potenze del mondo occidentale. Inoltre, l’effetto di emulazione, con l’entusiasmo dato dalla vittoria dei sovranisti britannici, costituirebbe carburante sicuro per i movimenti antieuropeisti disseminati in tutto il continente, che potrebbero ottenere dai propri governi una simile consultazione referendaria sulla permanenza o meno nell’Unione. Questo è ciò che più terrorizza Bruxelles ed i suoi gerarchi, perché sarebbe il preludio alla disintegrazione dell’Unione europea e del sistema della moneta unica che ne ha, sino ad oggi, blindato le uscite.
Questo è ciò che più di tutto spaventerebbe i mercati, e costituirebbe il vero pericolo per le banche europee imbottite di derivati e titoli-spazzatura, che rischierebbero di saltare in caso di crollo delle borse.
A noi non resta che stare a guardare: la palla domani è sul campo degli Inglesi, e dalla loro scelta dipenderà in gran parte il futuro dell’Unione Europea e dei Paesi che oggi la compongono.
Se gli Inglesi non si faranno spaventare da minacce, scenari apocalittici prefigurati ad arte dai media filoeuropeisti e atti di terrorismo strumentalizzati per farli sentire in colpa, e voteranno per uscire dall’UE, ne vedremo delle belle. Ma non dimentichiamo che dopo ogni burrasca torna il sereno, e che comunque è meglio il mare aperto che una palude maleodorante, senza vie d’uscita e infestata di coccodrilli…
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BREXIT: il D-day del nostro secolo.
23 giugno 2016. Siamo arrivati alla data del temutissimo voto sul referendum britannico, in cui gli Inglesi sono chiamati a scegliere se restare (remain) nell’Unione Europea o uscirne (leave).
I dibattiti televisivi e le testate giornalistiche nostrane affrontano ogni giorno il tema dal punto di vista europeo, divulgando le opinioni di vari economisti, politologi o esperti di altro genere, secondo la quasi totalità dei quali la Brexit sarebbe “una catastrofe” per l’Europa.
Poiché, come più volte si è sottolineato in questa ed altre sedi, l’informazione in Italia e in Europa non è affatto libera, bensì condizionata, a volte censurata ed in varie modalità asservita alle lobby che di fatto esercitano il potere muovendo dall’alto i fili dei burattini della politica, ritengo doveroso chiarire alcuni punti, che dovrebbero aiutare chi ha la bontà di leggermi a vedere un po’ oltre la cortina fumogena opportunamente diffusa dalla propaganda UE.
In primis, va evidenziato il solito, abusato “trucchetto” comunicativo usato dalla propaganda per confondere le idee e veicolare concetti utili a chi la utilizza, cioè quello di giocare con le parole: si usa impropriamente il termine “Europa” per intendere “Unione Europea”. Quindi si parla di “crisi dell’Europa”, “valori europei”, e via dicendo, quando invece si intende parlare dell’UE, che con l’Europa continentale non coincide per nulla.
Dovremmo tener ben presente, pertanto, che l’Europa c’era prima che nascesse la UE, la CEE o ogni altro organismo sovranazionale simile, e che continuerà ad esserci anche dopo che gli stessi cesseranno di esistere.
E proprio pensando bene a ciò che è davvero l’Europa (non la UE), dovremmo ricordare che essa è un coacervo di culture, lingue, tradizioni, costumi, religioni ed etnie diverse, da sempre fra loro comunicanti ed interagenti, ma profondamente distinte ed eterogenee.
Basta uno sguardo alla storia dell’ultimo millennio per rendersi conto che qualsiasi pretesa Unione federale europea o comunque si voglia chiamarla, che voglia imbrigliare tutte le suddette diversità sotto un unico governo accentrato, sia un progetto folle, più che utopico: folle ed immensamente pericoloso.
Quindi il “percorso verso la maggiore integrazione” che i sognatori degli USE (Stati Uniti d’Europa) propongono come unico tramite per raggiungere la “stabilità” e migliorare l’UE di oggi, emendandola dai difetti che ormai nessuno più nemmeno nega, è la più grande mistificazione che si possa pensare.
Orbene, accade che uno dei più antichi, solidi, influenti ed indubbiamente autonomi Stati europei, ovvero la Gran Bretagna, sia perfettamente consapevole di tutto questo.
Gli Inglesi non hanno mai rinunciato alle loro peculiarità, nemmeno le più “stravaganti”, rispetto agli standard degli altri Paesi europei, come la guida a sinistra, le unità di misura del peso (oncia invece del grammo) o dello spazio (piedi e miglia invece di metri); non hanno aderito all’euro; non hanno firmato il fiscal compact. Sono gelosissimi delle proprie tradizioni; la loro lingua è la lingua internazionale per eccellenza; si sono addirittura “creati” una religione cristiana che fa capo al proprio sovrano, con la riforma anglicana.
Mi sembra non ci sia molto da stupirsi dunque se, dopo alcuni anni di permanenza nell’UE, abbiano realizzato che la loro autonomia è stata fortemente menomata dall’adesione ai Trattati fondamentali dell’Ue, deprivando il loro Parlamento (insieme a quelli di tutti gli altri Paesi membri) del reale potere legislativo e compromettendo altresì l’indipendenza del loro sistema giudiziario, oltre che politico.
Questo perché, come non tutti sanno, l’appartenenza all’UE significa accettazione necessaria della supremazia delle normative europee su quelle nazionali, che si traduce nell’obbligo di ratificare o applicare direttamente nel proprio Paese le leggi decise a Bruxelles (dove chi le scrive non è il Parlamento europeo, che può soltanto approvarle, ma la Commissione europea, organo non eletto ma composto di soggetti a nomina diretta) e nell’obbligo per i giudici nazionali di conformarsi alle decisioni prese dalle Corti di Giustizia europee.
In altre parole: i Parlamentari devono solo copiare integralmente le leggi UE per trasformarle in leggi nazionali, o comunque legiferare sempre nel rispetto delle direttive e dei principi UE, pena l’illegittimità delle leggi stesse, se confliggenti col sistema europeo; i giudici devono disapplicare le leggi nazionali contrastanti con quelle UE (senza nemmeno impugnarle prima) o, comunque, decidere i processi nel rispetto delle decisioni già prese dalle Corti sovranazionali.
Ciò vale a tutti i livelli ed in tutte le materie. Ne è scaturito spesso un conflitto fra le posizioni delle Corti costituzionali nazionali (ad esempio tedesca o italiana, oltre che inglese) e le Corti europee, in quanto le Costituzioni nazionali impongono ai propri Parlamenti e giudici la tutela di principi e valori che non sempre sono presenti anche nei trattati UE, o che comunque hanno in essi rilievo minoritario.
Dalla presa di coscienza dei suddetti vincoli e dei problemi che ne conseguono, che i giudici inglesi in primis, ma anche molti politici, professori, economisti, e giuristi britannici hanno rilevato e segnalato nella loro gravità, nasce l’idea del referendum per la Brexit. Contrariamente a quanto si pensa, le ragioni dell’opinione favorevole all’uscita dall’UE, sono di ordine più politico e giuridico, che economico.
Per questo, vista l’impossibilità di contrapporre dei vantaggi in caso di “remain” per il Regno Unito ed il suo sistema democratico sotto i suddetti profili, i termini del dibattito in Europa sono centrati esclusivamente sugli aspetti economici della questione.
Non c’è da stupirsene, peraltro, visto che il sistema UE si fonda intrinsecamente su ragioni economiche, e precisamente di mercato. Ma tralasciare del tutto le considerazioni relative allo svuotamento della democrazia avvenuto nella UE, come se si trattasse di dettagli poco rilevanti, è poco lungimirante oltre che comunicativamente scorretto.
Quindi, il secondo “trucchetto” usato dalla propaganda filoeuropeista sta nel ridurre i termini della questione al discorso puramente economico, valutando unicamente i pro ed i contro di un’eventuale uscita sotto tale aspetto.
Preso atto di ciò, si può comunque analizzare anche su tale terreno la veridicità, quanto meno sotto il profilo della coerenza e dei principi economici, delle argomentazioni usate.
La prima conseguenza che si prevede in caso di Brexit è una svalutazione della sterlina. Essa sarebbe dovuta alla reazione nervosa dei “mercati” alla notizia, a causa dell’incertezza su cosa accadrà dopo. In altre parole, il prefigurare scenari apocalittici o comunque tenebrosi per il Regno unito fuori dall’UE, alimenta le paure degli investitori che, quindi, venderanno sterline temendone il deprezzamento ed – in tal modo – lo cagioneranno. La svalutazione sarà poi “spinta” anche dai grandi speculatori (tipo Soros, per intenderci) che giocheranno al ribasso sulla sterlina per poi lucrare dal futuro recupero del suo valore.
Questo però lascia intendere come la predetta svalutazione, che è probabile vi sarà, avrà quasi certamente natura transitoria: calmatesi le acque, non c’è un vero motivo per cui la sterlina debba restare “bassa”. Anzi, semmai si possono ragionevolmente anticipare le ragioni per cui non potrà restarlo, ma si riapprezzerà in tempi brevi: la prima è che una sterlina troppo debole favorirebbe enormemente l’export britannico, penalizzando al contempo quello dei Paesi UE concorrenti, che perderebbero di competitività sul prezzo dei beni.
Il secondo è che la stessa sterlina debole frenerebbe le esportazioni dell’UE verso la GB, che è uno dei principali mercati di sbocco dell’export europeo, e questo farebbe molto male alle imprese del continente.
Infine, la sterlina svalutata sarebbe un disastro per i creditori della GB, che di certo non solo soltanto Inglesi.
Quindi è evidente come la sterlina bassa sarebbe un problema per la maggior parte di coloro che operano sul mercato (e che infatti temono la Brexit) ma proprio per questo, i suoi attori principali interverrebbero presto per farla risalire a livelli accettabili.
L’altro argomento usato per convincere che la GB fa meglio a restare in UE, è il presunto pericolo di un isolamento del Regno Unito rispetto alla piazza europea, a causa del decadere degli accordi commerciali e di libera circolazione contenuti nei trattati UE.
Questo “spauracchio” non tiene conto del fatto che la Brexit non sarebbe di certo simultanea all’uscita dei risultati referendari, ma avverrebbe a seguito di un percorso legislativo condotto dal Governo britannico, che ovviamente si premurerebbe di regolare la fase transitoria. Ed è naturale che le regole vigenti resterebbero in vigore sino alla loro formale abrogazione da parte di leggi nuove, basate sui nuovi accordi, i quali non verrebbero di certo pensati per alzare muri fra la GB e il resto d’Europa, ma soltanto per rivedere gli aspetti critici (cioè svantaggiosi per il Regno Unito) che L’UE sarebbe costretta a modificare. E possiamo stare certi che la forza contrattuale di un Paese come l’UK, per tutti i motivi sopra detti, non sparirebbe di certo nello spazio di un mattino, perché è uscita dall’UE, anzi.
Quindi, nonostante le puerili minacce di Schauble, l’UE non avrà altra scelta, in caso di Brexit, che rifare gli accordi con l’UK, restituendole la sovranità – e quindi l’ultima parola – sotto tutti i profili istituzionali e di governo.
E’ possibile che tale percorso di rinegoziazione abbia tempi lunghi (anche se a tutti converrà sbrigarsi), ma in ogni caso, per riportare la serenità sui mercati basteranno le dichiarazioni rassicuranti delle parti in gioco, cioè dei vari leader e rappresentanti delle Istituzioni britanniche ed europee, sul certamente positivo esito del percorso stesso. Si è già visto più volte come una semplice frase detta da Draghi o da Cameron abbia il potere di infuocare o placare le borse.
C’è infine chi prevede un periodo di instabilità politica, dovuto a possibili dimissioni del Premier Cameron se vincesse il “leave”. Il punto è quanto meno incerto, ma comunque a mio avviso improbabile: Cameron non ha ragioni di dimettersi, a meno che non venga costretto da ragioni allo stato non visibili, ma anzi ha l’interesse a restare alla guida del Paese per poter dire “io l’avevo detto” se le cose dovessero mettersi male, o per poter rivendicare il proprio merito, avendo dato agli Inglesi la possibilità di votare al referendum, nella più probabile ipotesi in cui le cose dovessero andare meglio del previsto.
Il vero pericolo che deriverebbe dalla vittoria del “Brexit”, dunque, non è certamente per l’economia inglese. Al contrario, chi rischia di più sono le economie dei Paesi concorrenti con la GB sul mercato e, ancora di più, le istituzioni europee, che si vedrebbero sfilato da sotto il naso il controllo su una delle maggiori potenze del mondo occidentale. Inoltre, l’effetto di emulazione, con l’entusiasmo dato dalla vittoria dei sovranisti britannici, costituirebbe carburante sicuro per i movimenti antieuropeisti disseminati in tutto il continente, che potrebbero ottenere dai propri governi una simile consultazione referendaria sulla permanenza o meno nell’Unione. Questo è ciò che più terrorizza Bruxelles ed i suoi gerarchi, perché sarebbe il preludio alla disintegrazione dell’Unione europea e del sistema della moneta unica che ne ha, sino ad oggi, blindato le uscite.
Questo è ciò che più di tutto spaventerebbe i mercati, e costituirebbe il vero pericolo per le banche europee imbottite di derivati e titoli-spazzatura, che rischierebbero di saltare in caso di crollo delle borse.
A noi non resta che stare a guardare: la palla domani è sul campo degli Inglesi, e dalla loro scelta dipenderà in gran parte il futuro dell’Unione Europea e dei Paesi che oggi la compongono.
Se gli Inglesi non si faranno spaventare da minacce, scenari apocalittici prefigurati ad arte dai media filoeuropeisti e atti di terrorismo strumentalizzati per farli sentire in colpa, e voteranno per uscire dall’UE, ne vedremo delle belle. Ma non dimentichiamo che dopo ogni burrasca torna il sereno, e che comunque è meglio il mare aperto che una palude maleodorante, senza vie d’uscita e infestata di coccodrilli…
Francesca Donato
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