Proviamo a sintetizzare alcuni concetti fondamentali discussi in una serie di articoli su orizzonte48.blogspot.it che analizzano le dinamiche dell’economia e della società italiane e che tentano di descriverne e delinearne il futuro prossimo.
Quale orizzonte si intravede per l’Italia del breve e medio periodo se la traiettoria di politica economica non cambia? Quale tipo di impatto – a livello economico e demografico – avranno le politiche neoliberiste e liberoscambiste nel quadro dell’Unione Europea e della globalizzazione?
Il futuro che si profila – si argomenta – ha come orizzonte socioeconomico quello dell’Irlanda e del Giappone: quindi, per il tipo di traiettoria regressiva seguita pervicacemente dall’Italia, possiamo a ragion veduta parlare di “giapponificazione” e “irlandesizzazione” del nostro Paese.
Innanzitutto le cause della perdita di controllo della «sovranità popolare» sulle scelte di politica economica, e la totale mancanza di mezzi culturali anche solo per porsi il problema da parte di gran parte della classe dirigente, sono spiegate icasticamente da uno dei padri del neoliberismo, F. A. von Hayek:
«in una federazione di stati nazionali [come quella ricercata nella UE, ndr] la diversità di interessi è maggiore di quella presente all’interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un’identità in nome della quale superare i conflitti stessi […]. Un’omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee» “The Economic Conditions of Interstate Federalism”, 1939, pagg.121-122
Hayek affermava ancora nel 1939 che la semplice liberalizzazione dei commerci e la cessione di prerogative sovrane – come l’emissione monetaria – a organizzazioni sovranazionali, per motivi di natura politica non avrebbero portato alla formazione di uno Stato nazionale federale (ad es. sul modello degli USA), e per motivi economico-strutturali i grandi operatori di mercato avrebbero ottenuto la libertà di fare i propri interessi «al riparo del processo elettorale» (cit. M. Monti). Ovvero il “federalismo interstatale” avrebbe portato all’istituzionalizzazione del neoliberismo senza la possibilità di invertire il processo, escludendo definitivamente l’intervento keynesiano dello Stato a favore dei lavoratori.
E perché questa «cessione di sovranità» ai grandi operatori economici rende invisibile «l’elefante nel corridoio» del dominio degli interessi privati sull’interesse generale dei popoli? Semplicemente perché il controllo culturale diventa totalitario in quanto, stando sempre con Hayek: «Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
I media espressione dei grandi operatori economici, rimuovendo nella loro narrazione le cause delle dinamiche in atto come descritte da Hayek, ci preparano alla «giapponificazione»: cosa caratterizza il moderno Giappone tanto da veder coniato il neologismo «giapponificazione»? Cosa significa «diventare come il Giappone»?
Per «giapponificazione» si intende un mix di crescita debole, stagnazione, bassa inflazione o deflazione, tassi di interesse costantemente bassi e politiche monetarie molto accomodanti, con l’intervento persistente della banca centrale volto ad acquistare titoli del debito pubblico; questo a livello economico; a livello sociale, invece, si sottintende una crescente e inesorabile aumento dell’emarginazione che non permette, tra le altre, di costruire un futuro ai giovani che, per motivi principalmente economici, non possono mettere su famiglia, con il conseguente annichilimento della crescita demografica. Dinamiche che creano un circolo vizioso di carattere deflattivo tra economia «zombificata» e mancata crescita demografica.
Una nota: se la demografia ha un andamento negativo è intuitivo capire come il sistema di debiti su cui si fonda il capitalismo finanziarizzato diventi sempre più insostenibile: da una parte il debito pubblico tende a diventare una componente sempre più importante del PIL, in quanto la ricchezza nazionale è legata positivamente all’andamento demografico – per la banale constatazione per cui tendenzialmente “in più si lavora, più si produce” – dall’altra i giovani che non hanno il reddito per mettere su famiglia tendono a indebitarsi col settore privato non avendo i mezzi, altrimenti, per consumare. Questo circolo vizioso porta sempre maggiore instabilità nel sistema economico che scarica le proprie contraddizioni su sezioni sempre più importanti dei ceti meno abbienti.
La globalizzazione – e segnatamente il processo di integrazione “interstatale” eurounionista – sta istituzionalizzando un po’ ovunque questo modello socioeconomico a cui l’Italia, in stato già avanzato, si sta con ottusa diligenza adeguando.
Un’altra nazione a cui nel medio periodo l’Italia sta andando sempre più ad assomigliare, assumendone il modello socioeconomico, è l’Irlanda.
Cosa contraddistingue l’Irlanda?
L’Irlanda è un paese che ha subito una trasformazione istituzionale tale per cui il suo complesso industriale e finanziario è diventato a proprietà essenzialmente estera.
Questo stato di cose comporta un rapporto tra mercato del lavoro e demografia che raggiunge un equilibrio solo nel momento in cui a forte flussi emigratori corrispondono forti flussi immigratori, con tutte le relative conseguenze sociali.
Un altro parametro economico che caratterizza l’Irlanda è l’enorme debito privato complessivo rispetto al PIL: questo dato è socialmente preoccupante in quanto segnala una diffusa difficoltà dei lavoratori di generare risparmio.
Ma ciò che più contraddistingue un sistema finanziario-industriale a controllo estero, è la quantità “effimera” di ricchezza che viene generata nel Paese: da una parte questa – nonostante il sistema fiscale altamente progressivo – è polarizzata in un mercato del lavoro in cui da una lato vi sono salariati con grandi competenze e un alto livello retributivo, e dall’altro vi sono professionalità meno specializzate che vengono scarsamente retribuite. Dall’altra parte questa ricchezza è “effimera” perché è prodotta da multinazionali a proprietà estera che esportano come profitti gran parte del reddito nazionale prodotto.
L’investitore estero è in definitiva un creditore che si attende di veder ritornare sotto forma di utili il proprio capitale investito: questo comporta che l’investitore cercherà accordi per i quali – per assicurarsi i margini di profitto attesi – imporrà garanzie e condizionalità.
È evidente che lo Stato non potrà più perseguire un’autonoma strategia di politica economica funzionale ad assolvere i propri obblighi costituzionali, ma si troverà costretto ad adeguarsi agli obiettivi e agli interessi dell’investitore estero, esponendosi – inoltre – alle oscillazioni delle sue scelte finanziarie che possono portare a rapidi deflussi o afflussi di capitale, con tutte le conseguenze del caso.
Insomma, se la «giapponificazione» è un orizzonte che molti paesi occidentali cominciano a intravedere, la «irlandesizzazione» è invece un futuro che si delinea in quei Paesi che invocano a ogni piè spinto “investimenti diretti esteri” e diventano “hub” industriali-finanziari estero-controllati.
Inutile sottolineare che appare poco auspicabile per un paese come l’Italia, ricco di eccellenze industriali, cedere il controllo bancario e industriale a investitori esteri.
08/11/19 di Bazaar
(Per fonti e approfondimenti: https://orizzonte48.blogspot.com/2019/10/il-destino-dellitalia-1-japanification.html ; https://orizzonte48.blogspot.com/2019/10/il-destino-dellitalia-5.html)
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Il futuro dell’Italia
Proviamo a sintetizzare alcuni concetti fondamentali discussi in una serie di articoli su orizzonte48.blogspot.it che analizzano le dinamiche dell’economia e della società italiane e che tentano di descriverne e delinearne il futuro prossimo.
Quale orizzonte si intravede per l’Italia del breve e medio periodo se la traiettoria di politica economica non cambia? Quale tipo di impatto – a livello economico e demografico – avranno le politiche neoliberiste e liberoscambiste nel quadro dell’Unione Europea e della globalizzazione?
Il futuro che si profila – si argomenta – ha come orizzonte socioeconomico quello dell’Irlanda e del Giappone: quindi, per il tipo di traiettoria regressiva seguita pervicacemente dall’Italia, possiamo a ragion veduta parlare di “giapponificazione” e “irlandesizzazione” del nostro Paese.
Innanzitutto le cause della perdita di controllo della «sovranità popolare» sulle scelte di politica economica, e la totale mancanza di mezzi culturali anche solo per porsi il problema da parte di gran parte della classe dirigente, sono spiegate icasticamente da uno dei padri del neoliberismo, F. A. von Hayek:
«in una federazione di stati nazionali [come quella ricercata nella UE, ndr] la diversità di interessi è maggiore di quella presente all’interno di un singolo stato, e allo stesso tempo è più debole il sentimento di appartenenza a un’identità in nome della quale superare i conflitti stessi […]. Un’omogeneità strutturale, derivante da dimensioni limitate e tradizioni comuni, permette interventi sulla vita sociale ed economica che non risulterebbero accettabili nel quadro di unità politiche più ampie e per questo meno omogenee» “The Economic Conditions of Interstate Federalism”, 1939, pagg.121-122
Hayek affermava ancora nel 1939 che la semplice liberalizzazione dei commerci e la cessione di prerogative sovrane – come l’emissione monetaria – a organizzazioni sovranazionali, per motivi di natura politica non avrebbero portato alla formazione di uno Stato nazionale federale (ad es. sul modello degli USA), e per motivi economico-strutturali i grandi operatori di mercato avrebbero ottenuto la libertà di fare i propri interessi «al riparo del processo elettorale» (cit. M. Monti). Ovvero il “federalismo interstatale” avrebbe portato all’istituzionalizzazione del neoliberismo senza la possibilità di invertire il processo, escludendo definitivamente l’intervento keynesiano dello Stato a favore dei lavoratori.
E perché questa «cessione di sovranità» ai grandi operatori economici rende invisibile «l’elefante nel corridoio» del dominio degli interessi privati sull’interesse generale dei popoli? Semplicemente perché il controllo culturale diventa totalitario in quanto, stando sempre con Hayek: «Il controllo economico non è il semplice controllo di un settore della vita umana che possa essere separato dal resto; è il controllo dei mezzi per tutti i nostri fini. E chiunque abbia il controllo dei mezzi deve anche determinare quali fini debbano essere alimentati, quali valori vadano stimati […] in breve, ciò che gli uomini debbano credere e ciò per cui debbano affannarsi».
I media espressione dei grandi operatori economici, rimuovendo nella loro narrazione le cause delle dinamiche in atto come descritte da Hayek, ci preparano alla «giapponificazione»: cosa caratterizza il moderno Giappone tanto da veder coniato il neologismo «giapponificazione»? Cosa significa «diventare come il Giappone»?
Per «giapponificazione» si intende un mix di crescita debole, stagnazione, bassa inflazione o deflazione, tassi di interesse costantemente bassi e politiche monetarie molto accomodanti, con l’intervento persistente della banca centrale volto ad acquistare titoli del debito pubblico; questo a livello economico; a livello sociale, invece, si sottintende una crescente e inesorabile aumento dell’emarginazione che non permette, tra le altre, di costruire un futuro ai giovani che, per motivi principalmente economici, non possono mettere su famiglia, con il conseguente annichilimento della crescita demografica. Dinamiche che creano un circolo vizioso di carattere deflattivo tra economia «zombificata» e mancata crescita demografica.
Una nota: se la demografia ha un andamento negativo è intuitivo capire come il sistema di debiti su cui si fonda il capitalismo finanziarizzato diventi sempre più insostenibile: da una parte il debito pubblico tende a diventare una componente sempre più importante del PIL, in quanto la ricchezza nazionale è legata positivamente all’andamento demografico – per la banale constatazione per cui tendenzialmente “in più si lavora, più si produce” – dall’altra i giovani che non hanno il reddito per mettere su famiglia tendono a indebitarsi col settore privato non avendo i mezzi, altrimenti, per consumare. Questo circolo vizioso porta sempre maggiore instabilità nel sistema economico che scarica le proprie contraddizioni su sezioni sempre più importanti dei ceti meno abbienti.
La globalizzazione – e segnatamente il processo di integrazione “interstatale” eurounionista – sta istituzionalizzando un po’ ovunque questo modello socioeconomico a cui l’Italia, in stato già avanzato, si sta con ottusa diligenza adeguando.
Un’altra nazione a cui nel medio periodo l’Italia sta andando sempre più ad assomigliare, assumendone il modello socioeconomico, è l’Irlanda.
Cosa contraddistingue l’Irlanda?
L’Irlanda è un paese che ha subito una trasformazione istituzionale tale per cui il suo complesso industriale e finanziario è diventato a proprietà essenzialmente estera.
Questo stato di cose comporta un rapporto tra mercato del lavoro e demografia che raggiunge un equilibrio solo nel momento in cui a forte flussi emigratori corrispondono forti flussi immigratori, con tutte le relative conseguenze sociali.
Un altro parametro economico che caratterizza l’Irlanda è l’enorme debito privato complessivo rispetto al PIL: questo dato è socialmente preoccupante in quanto segnala una diffusa difficoltà dei lavoratori di generare risparmio.
Ma ciò che più contraddistingue un sistema finanziario-industriale a controllo estero, è la quantità “effimera” di ricchezza che viene generata nel Paese: da una parte questa – nonostante il sistema fiscale altamente progressivo – è polarizzata in un mercato del lavoro in cui da una lato vi sono salariati con grandi competenze e un alto livello retributivo, e dall’altro vi sono professionalità meno specializzate che vengono scarsamente retribuite. Dall’altra parte questa ricchezza è “effimera” perché è prodotta da multinazionali a proprietà estera che esportano come profitti gran parte del reddito nazionale prodotto.
L’investitore estero è in definitiva un creditore che si attende di veder ritornare sotto forma di utili il proprio capitale investito: questo comporta che l’investitore cercherà accordi per i quali – per assicurarsi i margini di profitto attesi – imporrà garanzie e condizionalità.
È evidente che lo Stato non potrà più perseguire un’autonoma strategia di politica economica funzionale ad assolvere i propri obblighi costituzionali, ma si troverà costretto ad adeguarsi agli obiettivi e agli interessi dell’investitore estero, esponendosi – inoltre – alle oscillazioni delle sue scelte finanziarie che possono portare a rapidi deflussi o afflussi di capitale, con tutte le conseguenze del caso.
Insomma, se la «giapponificazione» è un orizzonte che molti paesi occidentali cominciano a intravedere, la «irlandesizzazione» è invece un futuro che si delinea in quei Paesi che invocano a ogni piè spinto “investimenti diretti esteri” e diventano “hub” industriali-finanziari estero-controllati.
Inutile sottolineare che appare poco auspicabile per un paese come l’Italia, ricco di eccellenze industriali, cedere il controllo bancario e industriale a investitori esteri.
08/11/19 di Bazaar
(Per fonti e approfondimenti: https://orizzonte48.blogspot.com/2019/10/il-destino-dellitalia-1-japanification.html ; https://orizzonte48.blogspot.com/2019/10/il-destino-dellitalia-5.html)