La fine della «guerra fredda» e la fine – anche se di fatto solo fittizia* – di una grande contrapposizione dialettica politico-ideologica, ha portato tutte le nazioni del pianeta a far riforme di struttura «neoliberali» e ad abbracciare un’unica ideologia politica, da destra a sinistra: quella «liberale».
Il ritorno del liberalismo ottocentesco, chiamato neoliberalismo, ha segnato la fine delle ideologie; la fine ovviamente “delle altre” ideologie, visto che l’ideologia neoliberale occupa da decenni totalmente qualsiasi istituzione e le coscienze di gran parte dei popoli della terra.
Questa controrivoluzione, che ha imposto le riforme di struttura pro-mercato – ovvero pro-capitalismo monopolistico – e che ha fatto strame di tutte le conquiste sociali del XX secolo, a partire dalle costituzioni democratiche, è servita a rendere omogeneo il tessuto sociale disintegrando culture, tradizioni e popoli. Il nome di questo processo è stato chiamato «globalizzazione». Se le riforme strutturali hanno flessibilizzato al ribasso le condizioni economiche e sociali dei lavoratori, l’ideologia liberale ha imposto un linguaggio «corretto» ovunque affinché il nuovo (pietoso) ordine sociale mondiale venisse accettato e subìto.
Uno dei sostantivi più carichi di «politicamente corretto», prima di fare qualsiasi altra riflessione ermeneutica, è proprio quello di «liberalismo»; sostantivo che gli oppressi associano a un vago significato di libertà anti-autoritaria, se non proprio alla democrazia tout-court.
Lo Stato liberale, come insegna la storia del XIX secolo, è la dittatura di una classe che gode «per struttura sociale» del privilegio di vivere di profitti o rendita e che, sola, direttamente governa – come nel caso dell’ottocentesco ordine censitario – oppure governa indirettamente, in caso di suffragio allargato o universale, tramite il controllo totalitario di gran parte di media e partiti. Come oggi.
L’accezione positiva che il lavoratore dà all’aggettivo «liberale» ha validità esclusivamente nella sfera del privato, non casualmente l’ambito che difende il liberalismo (ovvero la proprietà privata dei mezzi di produzione, ovvero l’istituzione che ne sancisce la loro insindacabile esclusività). Ma l’accezione che risuona nella mente degli oppressi è il senso “virtuoso” della generosa “liberalità”: la generosa elargizione in denaro che il filantropo dis… (?!)… interessatamente concede.
Carl Schmitt, l’eminente giurista vicino al nazismo che aveva tutti gli interessi a sottolineare che – al di là della retorica politicamente corretta – il nazismo non era moralmente più deprecabile del liberalismo, quando veniva intervistato e gli veniva chiesto se dopo la guerra fosse mai diventato «liberale» (come se questo fosse sinonimo di «democratico») egli rispondeva ironicamente: «mia moglie è liberale!».
Il liberalismo è una ideologia talmente riducibile a religione dell’esclusione e del privato che si richiama subdolamente a un comportamento virtuoso, tipicamente dominio della morale privata: non sicuramente all’etica pubblica o all’aborrita politica.
La sfera della politica va «limitata» perché è vista come corrotta (non ovviamente da chi ha le risorse economiche per farlo, ossia dalle stesse oligarchie liberali, ma è considerata “corrotta” dagli elettori che concedono il loro voto se, e solo se, le riforme non sono per loro «dolorose» – ricorda qualcosa? – ovvero se queste portano maggiori sicurezza, occupazione e Stato sociale).
Tanto che il fondamento del liberalismo politico è il liberismo economico – laissez-faire e free-trade – ovvero quelle dottrine di economia politica che predicano come la sfera economica debba essere separata dalla sfera politica e sociale, ossia come la società civile debba essere separata dallo Stato. (Così lo Stato sociale – il welfare – è considerato un ingiusto privilegio concesso dalla politica “corrotta dalle plebi” a cui le forze sociali dominanti che vogliono il ritorno allo Stato liberale si oppongono).
Quindi, quando gli intellettuali liberali parlano di «società civile», stanno parlando delle oligarchie economiche.
Le ricadute classiste sono quindi ovvie: una volta che la grande maggioranza dei partiti politici delle democrazie parlamentari non si adoperano più per realizzare le democrazie sociali così come prescritto nelle moderne costituzioni (cfr. Mortati), ma perseguono la direzione contraria per cui il mercato si deve liberare da «tutte le costrizioni burocratiche» dello Stato (sociale), dai «lacci e lacciuoli» che lo regolano (a fini sociali) e dal «fardello del debito pubblico», e quindi dalla spesa pubblica (sociale) che finanzia lo Stato (sociale) e dal reddito indiretto che questo costituisce per le famiglie dei lavoratori, viene di fatto ostacolata qualsiasi partecipazione delle classi meno abbienti alla vita economica, sociale e politica del Paese (cfr. art.3 capoverso Cost.). Il ritorno del liberalismo, e del fondamentalismo del mercato che questo sottende, ha aumentato in modo spropositato le diseguaglianze economiche che ostacolano l’effettività della democrazia.
Ricordiamo, en passant, che tutto l’edificio eurounionista ha avuto come scopo effettivo lo smantellamento delle democrazie sociali europee al fine di imporre un ordine internazionale di mercato per cui la «forte competizione» doveva essere quella tra lavoratori, ovvero tra piccole e medie imprese, e tra salariati. Competizione che doveva selezionare schumpeterianamente le imprese e darwinisticamente i lavoratori, salariati e autonomi. Per la gioia dei monopolisti e alla faccia della “concorrenza perfetta”.
Quindi, nella lessico liberale, «concorrenza perfetta» significa «capitalismo monopolistico».
Non stupisce così che mantra del neoliberalismo sia l’imposizione di riforme di struttura che impongono liberalizzazioni e privatizzazioni: ciò che prima era reddito collettivo diventa rendita di soggetti privati in posizione di monopolio (il recente caso del ponte Morandi e dei Benetton grida vendetta al cospetto del Giudice Universale).
In definitiva tutto ciò che è «privato» è considerato virtuoso: persino il debito con cui gli Stati falliscono o entrano in guerra**.
(Sulla precomprensione del termine «liberalismo» sono stati scritte fiumi di pagine negli ultimi due secoli, sia dai socialisti, sia da conservatori di varia estrazione; questa rimane una introduzione propedeutica a riflessioni sul lessico neoliberale che – essendo un’ideologia elitista – adopera significanti, locuzioni e ideologemi che, in funzione dell’ascoltatore, hanno significati diversi. Purtroppo, a chi non “ha orecchio” per la materia, risultano condivisibili significati – falsi – che non gli permettono di perseguire i propri interessi materiali di classe).
* «Fittizia» perché la «guerra fredda» fu più che altro un espediente retorico-propagandistico piuttosto che una reale tensione internazionale (si confrontino le dichiarazioni dei fratelli Dulles): così lo scontro fra «democrazie liberali» e «dittature comuniste» può essere ridotto a nulla più di retorica con cui le oligarchie liberali occidentali gestivano in occidente le rivendicazioni sociali dei ceti subordinati e aumentavano l’area di influenza atlantica nel mondo. I rapporti di forza tra i due blocchi erano talmente sproporzionati che non ci fu mai un vero e proprio «pericolo comunista».
**Sotto attacco dalla propaganda neoliberale è la spesa pubblica, e quindi il debito pubblico, proprio, come dovremmo aver iniziato ad intuire, per far sì che “ciò che è pubblico, collettivo, finisca nelle mani dei privati”. Eppure la stragrande maggioranza delle crisi economiche avviene per un eccesso di debito privato che sostiene i consumi dei lavoratori che vedono frustrate le loro richieste salariali; e le crisi internazionali sono spesso il prodotto dell’elevato debito privato accumulato sotto forma di deficit commerciale
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La lingua biforcuta dei neoliberali
La fine della «guerra fredda» e la fine – anche se di fatto solo fittizia* – di una grande contrapposizione dialettica politico-ideologica, ha portato tutte le nazioni del pianeta a far riforme di struttura «neoliberali» e ad abbracciare un’unica ideologia politica, da destra a sinistra: quella «liberale».
Il ritorno del liberalismo ottocentesco, chiamato neoliberalismo, ha segnato la fine delle ideologie; la fine ovviamente “delle altre” ideologie, visto che l’ideologia neoliberale occupa da decenni totalmente qualsiasi istituzione e le coscienze di gran parte dei popoli della terra.
Questa controrivoluzione, che ha imposto le riforme di struttura pro-mercato – ovvero pro-capitalismo monopolistico – e che ha fatto strame di tutte le conquiste sociali del XX secolo, a partire dalle costituzioni democratiche, è servita a rendere omogeneo il tessuto sociale disintegrando culture, tradizioni e popoli. Il nome di questo processo è stato chiamato «globalizzazione». Se le riforme strutturali hanno flessibilizzato al ribasso le condizioni economiche e sociali dei lavoratori, l’ideologia liberale ha imposto un linguaggio «corretto» ovunque affinché il nuovo (pietoso) ordine sociale mondiale venisse accettato e subìto.
Uno dei sostantivi più carichi di «politicamente corretto», prima di fare qualsiasi altra riflessione ermeneutica, è proprio quello di «liberalismo»; sostantivo che gli oppressi associano a un vago significato di libertà anti-autoritaria, se non proprio alla democrazia tout-court.
Lo Stato liberale, come insegna la storia del XIX secolo, è la dittatura di una classe che gode «per struttura sociale» del privilegio di vivere di profitti o rendita e che, sola, direttamente governa – come nel caso dell’ottocentesco ordine censitario – oppure governa indirettamente, in caso di suffragio allargato o universale, tramite il controllo totalitario di gran parte di media e partiti. Come oggi.
L’accezione positiva che il lavoratore dà all’aggettivo «liberale» ha validità esclusivamente nella sfera del privato, non casualmente l’ambito che difende il liberalismo (ovvero la proprietà privata dei mezzi di produzione, ovvero l’istituzione che ne sancisce la loro insindacabile esclusività). Ma l’accezione che risuona nella mente degli oppressi è il senso “virtuoso” della generosa “liberalità”: la generosa elargizione in denaro che il filantropo dis… (?!)… interessatamente concede.
Carl Schmitt, l’eminente giurista vicino al nazismo che aveva tutti gli interessi a sottolineare che – al di là della retorica politicamente corretta – il nazismo non era moralmente più deprecabile del liberalismo, quando veniva intervistato e gli veniva chiesto se dopo la guerra fosse mai diventato «liberale» (come se questo fosse sinonimo di «democratico») egli rispondeva ironicamente: «mia moglie è liberale!».
Il liberalismo è una ideologia talmente riducibile a religione dell’esclusione e del privato che si richiama subdolamente a un comportamento virtuoso, tipicamente dominio della morale privata: non sicuramente all’etica pubblica o all’aborrita politica.
La sfera della politica va «limitata» perché è vista come corrotta (non ovviamente da chi ha le risorse economiche per farlo, ossia dalle stesse oligarchie liberali, ma è considerata “corrotta” dagli elettori che concedono il loro voto se, e solo se, le riforme non sono per loro «dolorose» – ricorda qualcosa? – ovvero se queste portano maggiori sicurezza, occupazione e Stato sociale).
Tanto che il fondamento del liberalismo politico è il liberismo economico – laissez-faire e free-trade – ovvero quelle dottrine di economia politica che predicano come la sfera economica debba essere separata dalla sfera politica e sociale, ossia come la società civile debba essere separata dallo Stato. (Così lo Stato sociale – il welfare – è considerato un ingiusto privilegio concesso dalla politica “corrotta dalle plebi” a cui le forze sociali dominanti che vogliono il ritorno allo Stato liberale si oppongono).
Quindi, quando gli intellettuali liberali parlano di «società civile», stanno parlando delle oligarchie economiche.
Le ricadute classiste sono quindi ovvie: una volta che la grande maggioranza dei partiti politici delle democrazie parlamentari non si adoperano più per realizzare le democrazie sociali così come prescritto nelle moderne costituzioni (cfr. Mortati), ma perseguono la direzione contraria per cui il mercato si deve liberare da «tutte le costrizioni burocratiche» dello Stato (sociale), dai «lacci e lacciuoli» che lo regolano (a fini sociali) e dal «fardello del debito pubblico», e quindi dalla spesa pubblica (sociale) che finanzia lo Stato (sociale) e dal reddito indiretto che questo costituisce per le famiglie dei lavoratori, viene di fatto ostacolata qualsiasi partecipazione delle classi meno abbienti alla vita economica, sociale e politica del Paese (cfr. art.3 capoverso Cost.). Il ritorno del liberalismo, e del fondamentalismo del mercato che questo sottende, ha aumentato in modo spropositato le diseguaglianze economiche che ostacolano l’effettività della democrazia.
Ricordiamo, en passant, che tutto l’edificio eurounionista ha avuto come scopo effettivo lo smantellamento delle democrazie sociali europee al fine di imporre un ordine internazionale di mercato per cui la «forte competizione» doveva essere quella tra lavoratori, ovvero tra piccole e medie imprese, e tra salariati. Competizione che doveva selezionare schumpeterianamente le imprese e darwinisticamente i lavoratori, salariati e autonomi. Per la gioia dei monopolisti e alla faccia della “concorrenza perfetta”.
Quindi, nella lessico liberale, «concorrenza perfetta» significa «capitalismo monopolistico».
Non stupisce così che mantra del neoliberalismo sia l’imposizione di riforme di struttura che impongono liberalizzazioni e privatizzazioni: ciò che prima era reddito collettivo diventa rendita di soggetti privati in posizione di monopolio (il recente caso del ponte Morandi e dei Benetton grida vendetta al cospetto del Giudice Universale).
In definitiva tutto ciò che è «privato» è considerato virtuoso: persino il debito con cui gli Stati falliscono o entrano in guerra**.
(Sulla precomprensione del termine «liberalismo» sono stati scritte fiumi di pagine negli ultimi due secoli, sia dai socialisti, sia da conservatori di varia estrazione; questa rimane una introduzione propedeutica a riflessioni sul lessico neoliberale che – essendo un’ideologia elitista – adopera significanti, locuzioni e ideologemi che, in funzione dell’ascoltatore, hanno significati diversi. Purtroppo, a chi non “ha orecchio” per la materia, risultano condivisibili significati – falsi – che non gli permettono di perseguire i propri interessi materiali di classe).
* «Fittizia» perché la «guerra fredda» fu più che altro un espediente retorico-propagandistico piuttosto che una reale tensione internazionale (si confrontino le dichiarazioni dei fratelli Dulles): così lo scontro fra «democrazie liberali» e «dittature comuniste» può essere ridotto a nulla più di retorica con cui le oligarchie liberali occidentali gestivano in occidente le rivendicazioni sociali dei ceti subordinati e aumentavano l’area di influenza atlantica nel mondo. I rapporti di forza tra i due blocchi erano talmente sproporzionati che non ci fu mai un vero e proprio «pericolo comunista».
**Sotto attacco dalla propaganda neoliberale è la spesa pubblica, e quindi il debito pubblico, proprio, come dovremmo aver iniziato ad intuire, per far sì che “ciò che è pubblico, collettivo, finisca nelle mani dei privati”. Eppure la stragrande maggioranza delle crisi economiche avviene per un eccesso di debito privato che sostiene i consumi dei lavoratori che vedono frustrate le loro richieste salariali; e le crisi internazionali sono spesso il prodotto dell’elevato debito privato accumulato sotto forma di deficit commerciale