Fra le misure in uso da parte dell’attuale governo, così come dei precedenti, dagli anni ’90 in poi almeno (alla faccia della sbandierata “discontinuità”), per intervenire sul bilancio dello Stato nella direzione di ridurre il debito pubblico, vi sono le cosiddette privatizzazioni.
Al di là delle valutazioni già più volte espresse sulla scelta suicida di azioni di riduzione del debito pubblico in tempi di crisi economica, visti i noti effetti recessivi di tali misure, è opportuno capire perché le suddette privatizzazioni, presentateci come strumento di salvezza del nostro sistema economico “ingessato e antiquato”, siano in realtà null’altro che una svendita delle aziende più produttive del nostro Paese a privati, finalizzata ad arricchire questi ultimi e contestualmente impoverire ed indebolire sempre più lo Stato italiano, sì da neutralizzarne la minaccia per i Paesi europei nostri competitori sul mercato internazionale.
Il percorso di privatizzazioni in Italia inizia decenni or sono, e procede parallelo all’opera di deindustrializzazione del nostro Paese.
In origine, a partire dal governo fascista, la presenza dello Stato nell’economia nazionale era pervasiva e dominante.
Durante il ventennio, l’azione pubblica si occupò quasi interamente di creare la struttura aziendale ed immobiliare necessaria per uscire dalla crisi del ’29 e rilanciare l’economia, attraverso massicci investimenti pubblici in opere di bonifica territoriale, costruzione di edifici pubblici di ogni tipo (scuole, università, uffici pubblici, ma anche colonie estive, Cinecittà, l’EUR a Roma…), riassetto urbanistico delle principali città ed infrastrutture essenziali come strade e ferrovie ed infine, creazione di imprese nazionali per la gestione di settori economici e servizi fondamentali di interesse pubblico. Fra queste, nel 1933, fu fondato l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale.
l’IRI nacque dunque come ente temporaneo con lo scopo prettamente di salvataggio delle banche e delle aziende a loro connesse. Il nuovo ente era formato da una “Sezione finanziamenti” e una “Sezione smobilizzi”.
Lo Stato, attraverso una serie di interventi mirati, assunse le partecipazioni delle banche in crisi, finanziandole affinché non fallissero. Le partecipazioni furono poi trasferite all’IRI, la cui principale preoccupazione divenne rimborsare alla Banca d’Italia il capitale ricevuto. Una volta trasferite le quote all’Istituto, questo avviò una propria campagna di mobilitazione del credito attraverso lo strumento delle obbligazioni industriali garantite dallo Stato. L’operazione fu l’applicazione in larga scala di quanto era già stato abbozzato con l’INA, ovvero l’organizzazione del piccolo risparmio che le banche, vincolate in legami a doppio filo con il sistema industriale, non riuscivano ad impiegare in reali processi di sviluppo.
In questo modo l’IRI, e quindi lo Stato, smobilizzò le banche miste, diventando contemporaneamente proprietario di oltre il 20% dell’intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore imprenditore italiano, con aziende come Ansaldo, Ilva, Cantieri Riuniti dell’Adriatico, SIP, SME, Terni, Edison. Si trattava in effetti di aziende che già da molti anni erano vicine al settore pubblico, sostenute da politiche tariffarie favorevoli e da commesse belliche. Inoltre l’IRI possedeva le tre maggiori banche italiane.
Al 1934, il valore nominale del patrimonio industriale era di 16,7 miliardi di lire, pari al 14,3% del Pil. Tra i principali trasferimenti all’ente figuravano:
la quasi totalità dell’industria degli armamenti
i servizi di telecomunicazione di gran parte dell’Italia
un’altissima quota della produzione di energia elettrica
una notevole quota dell’industria siderurgica civile
tra l’80% ed il 90% del settore di costruzioni navali e dell’industria della navigazione
Primo presidente, oltre che tra gli artefici della creazione dell’ente, fu Alberto Beneduce, economista di formazione socialista e fiduciario del Presidente del Consiglio dei Ministri (che, ricordiamo, era anch’egli in origine membro del Partito socialista.)
Inizialmente era previsto che l’IRI fosse un ente provvisorio il cui scopo era limitato alla dismissione delle attività così acquisite. Ciò in effetti avvenne con la Edison, che fu ceduta ai privati, ma nel 1937 il governo trasformò l’IRI in un ente pubblico permanente; in questo probabilmente influirono lo scopo di mettere in atto la politica autarchica lanciata dal governo e di tenere sotto controllo del governo le aziende navali ed aeronautiche, mentre era in corso la guerra d’Etiopia.
Per finanziare le sue aziende l’IRI emise negli anni Trenta dei prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato, risolvendo in questo modo il problema della scarsità di capitali privati. L’IRI si diede una struttura che raggruppava le sue partecipazioni per aree merceologiche: l’Istituto sottoscriveva il capitale di società finanziarie (le “caposettore”) che a loro volta possedevano il capitale delle società operative; così nel 1936 nacque la Finmare, nel 1937 la Finsider e la STET, poi nel dopoguerra Finmeccanica, Fincantieri e Finelettrica.
Nel dopoguerra la sopravvivenza dell’Istituto non era data per certa, essendo nato più come una soluzione provvisoria che con un orizzonte di lungo termine; di fatto però risultava difficile per lo stato cedere ai privati aziende che richiedevano grandi investimenti e davano ritorni sul lunghissimo periodo. Così l’IRI mantenne la struttura che aveva sotto il fascismo.
Solo dopo il 1950 la funzione dell’IRI fu meglio definita: una nuova spinta propulsiva per l’IRI venne da Oscar Sinigaglia, che con il suo piano per aumentare la capacità produttiva della siderurgia italiana strinse un’alleanza con gli industriali privati; si venne così a creare un nuovo ruolo per l’IRI, cioè quello di sviluppare la grande industria di base e le infrastrutture necessarie al paese, non in “supplenza” dei privati ma in una tacita suddivisione dei compiti. Ne furono esempi lo sviluppo dell’industria siderurgica, quello della rete telefonica e la costruzione dell’Autostrada del Sole, iniziata nel 1956.
Negli anni ’60, mentre l’economia italiana cresceva ad alti ritmi, l’IRI era tra i protagonisti del “miracolo” italiano. Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla “formula IRI” come ad un esempio positivo di intervento dello stato dell’economia, migliore della semplice “nazionalizzazione” perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato.
In molte aziende del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte aziende del gruppo IRI rimasero quotate in borsa e le obbligazioni emesse dall’Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori.
Ai vertici dell’IRI si insediarono esponenti della DC come Giuseppe Petrilli, presidente dell’Istituto per quasi vent’anni (dal 1960 al 1979). Petrilli nei suoi scritti elaborò una teoria che sottolineava gli effetti positivi della “formula IRI”.
Attraverso l’IRI le imprese erano utilizzabili per finalità sociali e lo Stato doveva farsi carico dei costi e delle diseconomie generati dagli investimenti; significava che l’IRI non doveva necessariamente seguire criteri imprenditoriali nella sua attività, ma investire secondo quelli che erano gli interessi della collettività anche quando ciò avesse generato “oneri impropri”, cioè anche in investimenti antieconomici.
Questa prassi, generalmente ritenuta connaturata all’esistenza stessa dell’IRI per il suo essere azienda pubblica, non era in realtà data per scontata al momento della sua creazione. La pratica amministrativa del suo fondatore, Alberto Beneduce, si fondava al contrario sull’assoluto rigore di bilancio e sulla limitazione delle assunzioni all’essenziale per garantire un funzionamento snello ed efficiente dell’organizzazione. Allo stesso modo, durante i primi anni di vita si scelse a livello gestionale di non procedere con operazioni di salvataggio, reali o camuffate.
In effetti, l’incremento negli anni a venire del numero di dipendenti IRI solo in parte può essere spiegato con l’espansione dell’attività produttiva in capo all’ente.
Poiché gli obiettivi dello Stato erano sviluppare l’economia del Mezzogiorno e mantenere la piena occupazione, l’IRI doveva concentrare i propri investimenti nel Sud ed incrementare l’occupazione nelle proprie aziende. La posizione di Petrilli rifletteva quelle già diffuse in alcune correnti della DC, che cercavano una “terza via” tra il liberismo ed il comunismo; il sistema misto delle imprese a partecipazione statale dell’IRI sembrava realizzare questo ibrido tra due sistemi agli antipodi.
L’IRI effettivamente poneva in essere grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell’Italsider di Taranto e quella dell’AlfaSud di Pomigliano d’Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza essere mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro . Per evitare gravi crisi occupazionali, l’IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i “salvataggi” della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l’acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell’Istituto.
All’IRI vennero richiesti ingentissimi investimenti anche in periodi di crisi, quando i privati riducevano i loro investimenti. Lo Stato erogava i cosiddetti “fondi di dotazione” all’IRI, che poi li allocava alle sue caposettore sotto forma di capitale; tali fondi però non erano mai sufficienti per finanziare gli enormi investimenti e spesso venivano erogati con ritardo.
Da qui iniziarono i problemi, perché l’Istituto e le sue aziende cominciarono a finanziarsi con l’indebitamento bancario, che negli anni Settanta crebbe a livelli vertiginosi, ad alti tassi di interesse. Gli oneri finanziari portarono così in rosso i conti dell’IRI e delle sue controllate: nel 1976 si verificò che tutte le aziende del settore pubblico chiusero in perdita. In particolare, la siderurgia e la cantieristica riportarono perdite fino agli anni ’80, così come erano pessimi i risultati economici dell’Alfa Romeo.
Quella che fu vista come una gestione antieconomica delle aziende IRI, portò gli azionisti privati ad uscire progressivamente dal loro capitale. In realtà i problemi erano dovuti al massiccio ricorso all’indebitamento verso le banche, dovuto al progressivo calo delle erogazioni pubbliche per il finanziamento dell’ente.
All’inizio degli anni ’80 i governi iniziarono un “ripensamento” sulla funzione e sulla gestione delle aziende pubbliche.
Nel 1980 l’IRI era un gruppo di circa 1.000 società con più di 500.000 dipendenti. Per molti anni fu la più grande azienda industriale al di fuori degli Stati Uniti d’America.
Nel 1982 il governo Spadolini affidò la presidenza dell’IRI a Romano Prodi. La nomina di un economista (seppur sempre politicamente di area democristiana, come il predecessore Pietro Sette) alla guida dell’IRI costituiva in effetti un segno di discontinuità rispetto al passato. E difatti la discontinuità si vide eccome: la ristrutturazione dell’IRI durante la presidenza Prodi portò a:
la cessione di 29 aziende del gruppo, tra le quali la più grande fu l’Alfa Romeo, privatizzata nel 1986;
la diminuzione dei dipendenti, grazie alle cessioni ed a numerosi prepensionamenti, soprattutto nella siderurgia e nei cantieri navali;
la tentata vendita della SME al gruppo CIR di Carlo De Benedetti, operazione che venne fortemente ostacolata dal governo di Bettino Craxi. Fu organizzata una cordata di imprese, comprendente anche Silvio Berlusconi, che avanzarono un’offerta alternativa per bloccare la vendita. L’offerta non venne poi onorata per carenze finanziarie, ma intanto la vendita della SME sfumò. Prodi fu accusato di aver stabilito un prezzo troppo basso (vedi vicenda SME).
Il risultato fu che nel 1987, per la prima volta da più di un decennio, l’IRI riportò il bilancio in utile, e di questo Prodi fece sempre un vanto, anche se a proposito di ciò Enrico Cuccia affermò:
« (Prodi) nel 1988 ha solo imputato a riserve le perdite sulla siderurgia, perdendo come negli anni precedenti. »
(S.Bocconi, I ricordi di Cuccia. E quella sfiducia sugli italiani, Corriere della Sera, 12 novembre 2007)
È comunque indubbio che in quegli anni l’IRI aveva per lo meno cessato di crescere e di allargare il proprio campo di attività, come invece aveva fatto nel decennio precedente, e per la prima volta i governi cominciarono a parlare di “privatizzazioni”.
Per le sorti dell’IRI fu decisiva l’accelerazione del processo di unificazione europea, che prevedeva l’unione doganale nel 1992 ed il successivo passaggio alla moneta unica sotto i vincoli del Trattato di Maastricht. Per garantire il principio della libera concorrenza, la Commissione Europea negli anni Ottanta aveva incominciato a contestare alcune pratiche messe in atto dai governi italiani, come la garanzia dello Stato sui debiti delle aziende siderurgiche e la pratica di affidare i lavori pubblici all’interno del gruppo IRI senza indire gara d’appalto europea. Le ricapitalizzazioni delle aziende pubbliche e la garanzia dello Stato sui loro debiti furono da allora considerati aiuti di Stato, in contrasto con i principi su cui si basava la Comunità Europea; l’Italia si trovò quindi nella necessità di riformare, secondo criteri di gestione più vicini a quelli delle aziende private, il suo settore pubblico, incentrato su IRI, ENI ed EFIM.
Nel luglio 1992 l’IRI e gli altri enti pubblici furono convertiti in Società per azioni.
Nel 1992 chiudeva l’anno con 75.912 miliardi di lire di fatturato ma con 5.182 miliardi di perdite. Ancora nel 1993 l’IRI si trovava al settimo posto nella classifica delle maggiori società del mondo per fatturato, con 67.5 miliardi di dollari di vendite.
Nel luglio del 1993 il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert contestò all’Italia la concessione di fondi pubblici all’EFIM, che non era più in grado di ripagare i propri debiti.
Per evitare una grave crisi d’insolvenza, Van Miert concluse con l’allora ministro degli Esteri Beniamino Andreatta un accordo che consentiva allo Stato italiano di pagare i debiti dell’EFIM, ma a condizione dell’impegno incondizionato a stabilizzare i debiti di IRI, ENI ed ENEL e poi a ridurli progressivamente ad un livello comparabile con quello delle aziende private entro il 1996. Per ridurre in modo così sostanzioso i debiti degli ex-enti pubblici, l’Italia non poteva che privatizzare gran parte delle aziende partecipate dall’IRI. (N.B.: Andreatta fu altresì l’autore del c.d. “divorzio” fra la Banca d’Italia ed il ministero del Tesoro: grazie a questa decisione, presa con assoluta arbitrarietà e comunicata con una semplice lettera del Ministro, da quel giorno il Tesoro non poté più obbligare la Banca d’Italia a comprare i titoli di debito pubblico rimasti non acquistati sul mercato primario, così, per incentivarne l’acquisto, lo Stato italiano fu costretto ad aumentarne il tasso di interesse, portando ad un rapidissimo aumento del debito pubblico per interessi sui titoli emessi, che portò al raddoppio dell’importo totale del debito pubblico italiano durante gli anni ottanta. Oggi i politici al governo e gli economisti neoliberisti al loro servizio ci raccontano che tale aumento fu invece dovuto all’eccessiva spesa pubblica “scriteriata” posta in essere dai “governi cicala” di quegli anni, colpa che ancor oggi noi dobbiamo espiare con i “sacrifici” che ci vengono imposti per ridurre il debito pubblico.)
L’accordo Andreatta – Van Miert impresse una forte accelerazione alle privatizzazioni, iniziate già nel 1993 con la vendita del Credito Italiano. Nonostante alcuni pareri contrari, il ministero del Tesoro scelse di non privatizzare l’IRI S.p.A., ma di smembrarla e di vendere le sue aziende operative; tale linea politica fu inaugurata sotto il primo governo di Giuliano Amato e non fu mai messa realmente in discussione dai governi successivi. Nonostante nel 1997 i livelli di indebitamento fissati dall’accordo Andreatta-Van Miert fossero già stati raggiunti, le dismissioni dell’IRI proseguirono comunque e l’Istituto perse qualsiasi funzione, se non quella di vendere le sue attività e di avviarsi verso la liquidazione.
Tra il 1992 ed il 2000 l’IRI vendette partecipazioni e rami d’azienda, che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, suo unico azionista, di 56.051 miliardi di lire, cui vanno aggiunti i debiti trasferiti. Suscitarono critiche le cessioni ai privati, tra le altre, di aziende in posizione pressoché monopolistica, come Telecom Italia ed Autostrade S.p.A.; cessioni che garantirono agli acquirenti posizioni di rendita.
Con un documento pubblicato il 10 febbraio 2010, ormai ultimata la stagione delle privatizzazioni che aveva preso il via quasi 20 anni prima, la Corte dei Conti ha reso pubblico uno studio nel quale elabora la propria analisi sull’efficacia dei provvedimenti adottati. Il giudizio, che rimane neutrale, segnala, sì, un recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato, ma segnala che detto recupero non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza, quanto piuttosto all’incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, ecc., ben al di sopra dei livelli di altri paesi Europei. A questo aumento, inoltre, non avrebbe fatto seguito alcun progetto di investimento, volto a migliorare i servizi offerti.
Quindi, è la Corte dei Conti, e non qualche “gufo” conservatore contrario per partito preso alle “riforme”, a dichiarare e certificare che le tanto decantate privatizzazioni non comportano affatto, grazie all’osannato meccanismo della concorrenza, un miglioramento del servizio offerto ai cittadini, anzi: poiché il fine perseguito da tutte le imprese private è solo ed unicamente quello di incrementare i profitti, esse conducono a interventi gestionali di riduzioni dei costi (tramite riduzioni del personale, cioè licenziamenti, e limitazioni alla spesa per ricerca ed innovazione) ed aumento delle tariffe, possibile dato che nei settori chiave esse operano all’interno del confine nazionale o nell’ambito di “cartelli” di imprese, quindi in condizioni di sostanziale monopolio (vedi ad es., la società autostrade)
Ancora più secco è il giudizio della Corte dei Conti sulle procedure utilizzate nell’opera di privatizzazione, che:
« evidenzia una serie di importanti criticità, le quali vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza, al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito »
Le poche aziende (Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Alitalia e RAI) rimaste in mano all’IRI furono trasferite sotto il diretto controllo del Tesoro. Nonostante alcune proposte di mantenerlo in vita, trasformandolo in una non meglio precisata “agenzia per lo sviluppo”, il 27 giugno 2000 l’IRI fu messo in liquidazione e nel 2002 fu incorporato in Fintecna, scomparendo definitivamente. Prima di essere incorporato dalla sua controllata ha però pagato un assegno al Ministero del Tesoro di oltre 5000 miliardi di lire, naturalmente dopo aver saldato ogni suo debito.
Per un’analisi fortemente critica del percorso delle privatizzazioni, anche alla luce delle dinamiche politiche internazionali, consiglio anche la lettura di questo documento del 1993: http://www.movisol.org/draghi3.htm
Quindi, ricapitolando:
un tempo tutte le partecipazioni statali negli enti pubblici economici facevano capo agli enti di gestione (IRI, ENI, EFIM, ENEL), che agivano sotto il controllo del Ministero delle partecipazioni statali.
Ma nel 1993 venne indetto un referendum popolare per l’abolizione delle partecipazioni statali, che grazie alla consueta massiccia azione di propaganda ottenne il risultato sperato dai fautori delle privatizzazioni, consentendo la soppressione del Ministero delle partecipazioni statali e l’avvio ufficiale del processo di privatizzazione degli enti pubblici economici e delle aziende di Stato.
Nel linguaggio giornalistico l’IRI è rimasto come paradigma della mano pubblica che raccoglie partecipazioni in aziende senza troppi criteri imprenditoriali. Così enti statali come la Cassa Depositi e Prestiti e Sviluppo Italia sono stati soprannominati “nuove IRI”, con una certa connotazione negativa, a sottolinearne le finalità politiche e clientelari che tenderebbero, secondo i critici, a prevalere su quelle economiche.
E vediamo oggi come i risultati della propaganda mediatica che sostiene le privatizzazioni propugnate dai governi neoliberisti continuino a fiorire: notizia di pochi giorni fa è la programmata cessione del 32% di un ramo di Cassa depositi e prestiti a società cinesi, ad opera del ministro Padoan.
Tutto il percorso sin qui seguito percorre il sentiero tracciato dalla Commissione europea e dalla BCE (non dimentichiamo che anche nella famosa lettera di Trichet al Governo italiano, del 2011, si inseriva nella “lista di cose da fare” anche l’accellerazione sulle privatizzazioni), dando per acquisito ed automatico – perché di fanno ormai lo è – il prevalere indiscusso del diritto UE e dei suoi principi fondamentali su quelli sanciti dalla nostra Carta costituzionale.
La libertà economica riconosciuta dalla Costituzione si differenzia, difatti, dalle altre libertà fondamentali anch’esse previste nella Carta, in quanto va esercitata tenendo conto non dei soli interessi dell’imprenditore, ma anche degli interessi di quei soggetti su cui si possono riflettere le scelte aziendali. Ma quando un’azienda pubblica viene acquistata da una multinazionale straniera, tale principio viene meno, e ciò accade oggi anche quando ad acquistarla è un’impresa privata italiana che opera in ossequio alle leggi europee, che prevalgono ormai per orientamento giurisprudenziale consolidato sul nostro diritto interno e sulla nostra Costituzione.
Inoltre, recentemente, nuovi interventi normativi hanno introdotto notevoli limitazioni alla possibilità per le Pubbliche Amministrazioni di procedere alla costituzione di società pubbliche: la L. 244 del 2007 (legge finanziaria per l’anno 2008), come novellata dalla L. 69/2009, stabilisce che “al fine di tutelare la concorrenza ed il mercato, le amministrazioni … non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”: la norma è evidentemente finalizzata ad obbligare le Pubbliche Amministrazioni che ancora detengano quote di partecipazione in società miste alla dismissione delle stesse, per privatizzarle completamente, nonché ad impedire la creazione di nuove società pubbliche e miste.
La sfera di sopravvivenza dell’attività di intervento statale e pubblico nell’economia viene così sempre più ridotto ai minimi termini, fra gli applausi di soddisfazione delle platee imprenditoriali internazionali, pronte ad accaparrarsi gli ingenti profitti derivanti dalla gestione dei servizi pubblici.
Per quanto riguarda, comunque, le società pubbliche ancora esistenti, che esercitino attività di impresa, il diritto europeo tende all’equiparazione delle stesse con le società private, per evitare che, attraverso il riconoscimento di poteri speciali al socio pubblico, si possano disincentivare gli investimenti da parte di altri operatori economici, con pregiudizio alle “libertà comunitarie”.
Quindi si è stabilito che l’impresa pubblica, pur essendo un soggetto giuridico in cui i pubblici poteri esercitano un’influenza dominante, deve agire in normali condizioni di mercato, assumendone il rischi d’impresa e perseguendo finalità di lucro. In parole povere, si è svuotato il concetto di impresa pubblica del suo connotato essenziale, ovvero il fine di pubblica utilità, sostituendo ad esso il fine di lucro, dando attuazione all’obiettivo dichiarato della politica dell’Unione Europea: la tutela del mercato sopra ogni cosa, cioè degli interessi economici e finanziari dei privati, a discapito degli interessi dei popoli e dei cittadini e dei loro diritti fondamentali!
Questo è ciò che spinge avanti a passi da gigante il percorso di integrazione europea, quello per cui operano e pontificano il nostro Presidente della Repubblica Napolitano, oltre a Renzi, Letta, Monti e tutti coloro che magnificano l’Unione Europea, l’euro e gli agognati “Stati uniti d’Europa”. Un’unica nazione federale, votata al perseguimento dei fini indicati dai più biechi ed amorali centri del potere del capitalismo finanziario, le cui sedi principali si trovano negli USA, che non a caso ci vengono indicati come il modello ideale di Stato federale a cui dovremmo ispirarci.
L’esaltazione mediatica dell’economia e del sistema politico statunitensi, che non tiene minimamente conto degli enormi deficit sociali e democratici persistenti in tale sistema (in cui non vi è tutela effettiva del diritto alla salute, all’abitazione, alla dignità umana, ed in cui lo Stato consente e promuove il possesso privato di armi anche da guerra, la pena di morte e la tortura) porta i nostri cittadini ad inseguire il miraggio del “progresso” e della crescita economica sul modello americano tramite il contenitore europeo, assecondando inconsapevolmente i fini del tutto antisociali delle grandi lobby internazionali delle banche e assicurazioni, dei produttori e commercianti di armi, delle imprese petrolifere e farmaceutiche.
Nel nostro Paese, quindi, le privatizzazioni – strumento obbligato in quanto imposto dai Trattati UE per rispettare i vincoli di “stabilità” e pareggio del bilancio – sono una delle armi più importanti e più facilmente utilizzabili (insieme al controllo della moneta tramite l’euro) per assicurare a suddette lobby il consolidamento e l’ampliamento delle proprie posizioni di potere, sino al raggiungimento del completo dominio sull’economia, la politica e quindi sull’intero territorio nazionale.
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LA MANNAIA DELLE PRIVATIZZAZIONI
Fra le misure in uso da parte dell’attuale governo, così come dei precedenti, dagli anni ’90 in poi almeno (alla faccia della sbandierata “discontinuità”), per intervenire sul bilancio dello Stato nella direzione di ridurre il debito pubblico, vi sono le cosiddette privatizzazioni.
Al di là delle valutazioni già più volte espresse sulla scelta suicida di azioni di riduzione del debito pubblico in tempi di crisi economica, visti i noti effetti recessivi di tali misure, è opportuno capire perché le suddette privatizzazioni, presentateci come strumento di salvezza del nostro sistema economico “ingessato e antiquato”, siano in realtà null’altro che una svendita delle aziende più produttive del nostro Paese a privati, finalizzata ad arricchire questi ultimi e contestualmente impoverire ed indebolire sempre più lo Stato italiano, sì da neutralizzarne la minaccia per i Paesi europei nostri competitori sul mercato internazionale.
Il percorso di privatizzazioni in Italia inizia decenni or sono, e procede parallelo all’opera di deindustrializzazione del nostro Paese.
In origine, a partire dal governo fascista, la presenza dello Stato nell’economia nazionale era pervasiva e dominante.
Durante il ventennio, l’azione pubblica si occupò quasi interamente di creare la struttura aziendale ed immobiliare necessaria per uscire dalla crisi del ’29 e rilanciare l’economia, attraverso massicci investimenti pubblici in opere di bonifica territoriale, costruzione di edifici pubblici di ogni tipo (scuole, università, uffici pubblici, ma anche colonie estive, Cinecittà, l’EUR a Roma…), riassetto urbanistico delle principali città ed infrastrutture essenziali come strade e ferrovie ed infine, creazione di imprese nazionali per la gestione di settori economici e servizi fondamentali di interesse pubblico. Fra queste, nel 1933, fu fondato l’IRI, Istituto per la Ricostruzione Industriale.
Nacque per iniziativa dell’allora capo del Governo Benito Mussolini al fine di evitare il fallimento delle principali banche italiane (Commerciale, Credito Italiano e Banco di Roma) e con esse il crollo dell’economia, già provata dalla crisi economica mondiale iniziata nel 1929.
l’IRI nacque dunque come ente temporaneo con lo scopo prettamente di salvataggio delle banche e delle aziende a loro connesse. Il nuovo ente era formato da una “Sezione finanziamenti” e una “Sezione smobilizzi”.
Lo Stato, attraverso una serie di interventi mirati, assunse le partecipazioni delle banche in crisi, finanziandole affinché non fallissero. Le partecipazioni furono poi trasferite all’IRI, la cui principale preoccupazione divenne rimborsare alla Banca d’Italia il capitale ricevuto. Una volta trasferite le quote all’Istituto, questo avviò una propria campagna di mobilitazione del credito attraverso lo strumento delle obbligazioni industriali garantite dallo Stato. L’operazione fu l’applicazione in larga scala di quanto era già stato abbozzato con l’INA, ovvero l’organizzazione del piccolo risparmio che le banche, vincolate in legami a doppio filo con il sistema industriale, non riuscivano ad impiegare in reali processi di sviluppo.
In questo modo l’IRI, e quindi lo Stato, smobilizzò le banche miste, diventando contemporaneamente proprietario di oltre il 20% dell’intero capitale azionario nazionale e di fatto il maggiore imprenditore italiano, con aziende come Ansaldo, Ilva, Cantieri Riuniti dell’Adriatico, SIP, SME, Terni, Edison. Si trattava in effetti di aziende che già da molti anni erano vicine al settore pubblico, sostenute da politiche tariffarie favorevoli e da commesse belliche. Inoltre l’IRI possedeva le tre maggiori banche italiane.
Al 1934, il valore nominale del patrimonio industriale era di 16,7 miliardi di lire, pari al 14,3% del Pil. Tra i principali trasferimenti all’ente figuravano:
Primo presidente, oltre che tra gli artefici della creazione dell’ente, fu Alberto Beneduce, economista di formazione socialista e fiduciario del Presidente del Consiglio dei Ministri (che, ricordiamo, era anch’egli in origine membro del Partito socialista.)
Inizialmente era previsto che l’IRI fosse un ente provvisorio il cui scopo era limitato alla dismissione delle attività così acquisite. Ciò in effetti avvenne con la Edison, che fu ceduta ai privati, ma nel 1937 il governo trasformò l’IRI in un ente pubblico permanente; in questo probabilmente influirono lo scopo di mettere in atto la politica autarchica lanciata dal governo e di tenere sotto controllo del governo le aziende navali ed aeronautiche, mentre era in corso la guerra d’Etiopia.
Per finanziare le sue aziende l’IRI emise negli anni Trenta dei prestiti obbligazionari garantiti dallo Stato, risolvendo in questo modo il problema della scarsità di capitali privati. L’IRI si diede una struttura che raggruppava le sue partecipazioni per aree merceologiche: l’Istituto sottoscriveva il capitale di società finanziarie (le “caposettore”) che a loro volta possedevano il capitale delle società operative; così nel 1936 nacque la Finmare, nel 1937 la Finsider e la STET, poi nel dopoguerra Finmeccanica, Fincantieri e Finelettrica.
Nel dopoguerra la sopravvivenza dell’Istituto non era data per certa, essendo nato più come una soluzione provvisoria che con un orizzonte di lungo termine; di fatto però risultava difficile per lo stato cedere ai privati aziende che richiedevano grandi investimenti e davano ritorni sul lunghissimo periodo. Così l’IRI mantenne la struttura che aveva sotto il fascismo.
Solo dopo il 1950 la funzione dell’IRI fu meglio definita: una nuova spinta propulsiva per l’IRI venne da Oscar Sinigaglia, che con il suo piano per aumentare la capacità produttiva della siderurgia italiana strinse un’alleanza con gli industriali privati; si venne così a creare un nuovo ruolo per l’IRI, cioè quello di sviluppare la grande industria di base e le infrastrutture necessarie al paese, non in “supplenza” dei privati ma in una tacita suddivisione dei compiti. Ne furono esempi lo sviluppo dell’industria siderurgica, quello della rete telefonica e la costruzione dell’Autostrada del Sole, iniziata nel 1956.
Negli anni ’60, mentre l’economia italiana cresceva ad alti ritmi, l’IRI era tra i protagonisti del “miracolo” italiano. Altri paesi europei, in particolare i governi laburisti inglesi, guardavano alla “formula IRI” come ad un esempio positivo di intervento dello stato dell’economia, migliore della semplice “nazionalizzazione” perché permetteva una cooperazione tra capitale pubblico e capitale privato.
In molte aziende del gruppo il capitale era misto, in parte pubblico, in parte privato. Molte aziende del gruppo IRI rimasero quotate in borsa e le obbligazioni emesse dall’Istituto per finanziare le proprie imprese erano sottoscritte in massa dai risparmiatori.
Ai vertici dell’IRI si insediarono esponenti della DC come Giuseppe Petrilli, presidente dell’Istituto per quasi vent’anni (dal 1960 al 1979). Petrilli nei suoi scritti elaborò una teoria che sottolineava gli effetti positivi della “formula IRI”.
Attraverso l’IRI le imprese erano utilizzabili per finalità sociali e lo Stato doveva farsi carico dei costi e delle diseconomie generati dagli investimenti; significava che l’IRI non doveva necessariamente seguire criteri imprenditoriali nella sua attività, ma investire secondo quelli che erano gli interessi della collettività anche quando ciò avesse generato “oneri impropri”, cioè anche in investimenti antieconomici.
Questa prassi, generalmente ritenuta connaturata all’esistenza stessa dell’IRI per il suo essere azienda pubblica, non era in realtà data per scontata al momento della sua creazione. La pratica amministrativa del suo fondatore, Alberto Beneduce, si fondava al contrario sull’assoluto rigore di bilancio e sulla limitazione delle assunzioni all’essenziale per garantire un funzionamento snello ed efficiente dell’organizzazione. Allo stesso modo, durante i primi anni di vita si scelse a livello gestionale di non procedere con operazioni di salvataggio, reali o camuffate.
In effetti, l’incremento negli anni a venire del numero di dipendenti IRI solo in parte può essere spiegato con l’espansione dell’attività produttiva in capo all’ente.
Poiché gli obiettivi dello Stato erano sviluppare l’economia del Mezzogiorno e mantenere la piena occupazione, l’IRI doveva concentrare i propri investimenti nel Sud ed incrementare l’occupazione nelle proprie aziende. La posizione di Petrilli rifletteva quelle già diffuse in alcune correnti della DC, che cercavano una “terza via” tra il liberismo ed il comunismo; il sistema misto delle imprese a partecipazione statale dell’IRI sembrava realizzare questo ibrido tra due sistemi agli antipodi.
L’IRI effettivamente poneva in essere grandissimi investimenti nel Sud Italia, come la costruzione dell’Italsider di Taranto e quella dell’AlfaSud di Pomigliano d’Arco e di Pratola Serra in Irpinia; altri furono programmati senza essere mai essere realizzati, come il centro siderurgico di Gioia Tauro . Per evitare gravi crisi occupazionali, l’IRI venne spesso chiamato in soccorso di aziende private in difficoltà: ne sono esempi i “salvataggi” della Motta e dei Cantieri Navali Rinaldo Piaggio e l’acquisizione di aziende alimentari dalla Montedison; questo portò ad un incremento progressivo di attività e dipendenti dell’Istituto.
All’IRI vennero richiesti ingentissimi investimenti anche in periodi di crisi, quando i privati riducevano i loro investimenti. Lo Stato erogava i cosiddetti “fondi di dotazione” all’IRI, che poi li allocava alle sue caposettore sotto forma di capitale; tali fondi però non erano mai sufficienti per finanziare gli enormi investimenti e spesso venivano erogati con ritardo.
Da qui iniziarono i problemi, perché l’Istituto e le sue aziende cominciarono a finanziarsi con l’indebitamento bancario, che negli anni Settanta crebbe a livelli vertiginosi, ad alti tassi di interesse. Gli oneri finanziari portarono così in rosso i conti dell’IRI e delle sue controllate: nel 1976 si verificò che tutte le aziende del settore pubblico chiusero in perdita. In particolare, la siderurgia e la cantieristica riportarono perdite fino agli anni ’80, così come erano pessimi i risultati economici dell’Alfa Romeo.
Quella che fu vista come una gestione antieconomica delle aziende IRI, portò gli azionisti privati ad uscire progressivamente dal loro capitale. In realtà i problemi erano dovuti al massiccio ricorso all’indebitamento verso le banche, dovuto al progressivo calo delle erogazioni pubbliche per il finanziamento dell’ente.
All’inizio degli anni ’80 i governi iniziarono un “ripensamento” sulla funzione e sulla gestione delle aziende pubbliche.
Nel 1980 l’IRI era un gruppo di circa 1.000 società con più di 500.000 dipendenti. Per molti anni fu la più grande azienda industriale al di fuori degli Stati Uniti d’America.
Nel 1982 il governo Spadolini affidò la presidenza dell’IRI a Romano Prodi. La nomina di un economista (seppur sempre politicamente di area democristiana, come il predecessore Pietro Sette) alla guida dell’IRI costituiva in effetti un segno di discontinuità rispetto al passato. E difatti la discontinuità si vide eccome: la ristrutturazione dell’IRI durante la presidenza Prodi portò a:
Il risultato fu che nel 1987, per la prima volta da più di un decennio, l’IRI riportò il bilancio in utile, e di questo Prodi fece sempre un vanto, anche se a proposito di ciò Enrico Cuccia affermò:
È comunque indubbio che in quegli anni l’IRI aveva per lo meno cessato di crescere e di allargare il proprio campo di attività, come invece aveva fatto nel decennio precedente, e per la prima volta i governi cominciarono a parlare di “privatizzazioni”.
Per le sorti dell’IRI fu decisiva l’accelerazione del processo di unificazione europea, che prevedeva l’unione doganale nel 1992 ed il successivo passaggio alla moneta unica sotto i vincoli del Trattato di Maastricht. Per garantire il principio della libera concorrenza, la Commissione Europea negli anni Ottanta aveva incominciato a contestare alcune pratiche messe in atto dai governi italiani, come la garanzia dello Stato sui debiti delle aziende siderurgiche e la pratica di affidare i lavori pubblici all’interno del gruppo IRI senza indire gara d’appalto europea. Le ricapitalizzazioni delle aziende pubbliche e la garanzia dello Stato sui loro debiti furono da allora considerati aiuti di Stato, in contrasto con i principi su cui si basava la Comunità Europea; l’Italia si trovò quindi nella necessità di riformare, secondo criteri di gestione più vicini a quelli delle aziende private, il suo settore pubblico, incentrato su IRI, ENI ed EFIM.
Nel luglio 1992 l’IRI e gli altri enti pubblici furono convertiti in Società per azioni.
Nel 1992 chiudeva l’anno con 75.912 miliardi di lire di fatturato ma con 5.182 miliardi di perdite. Ancora nel 1993 l’IRI si trovava al settimo posto nella classifica delle maggiori società del mondo per fatturato, con 67.5 miliardi di dollari di vendite.
Nel luglio del 1993 il commissario europeo alla Concorrenza Karel Van Miert contestò all’Italia la concessione di fondi pubblici all’EFIM, che non era più in grado di ripagare i propri debiti.
Per evitare una grave crisi d’insolvenza, Van Miert concluse con l’allora ministro degli Esteri Beniamino Andreatta un accordo che consentiva allo Stato italiano di pagare i debiti dell’EFIM, ma a condizione dell’impegno incondizionato a stabilizzare i debiti di IRI, ENI ed ENEL e poi a ridurli progressivamente ad un livello comparabile con quello delle aziende private entro il 1996. Per ridurre in modo così sostanzioso i debiti degli ex-enti pubblici, l’Italia non poteva che privatizzare gran parte delle aziende partecipate dall’IRI. (N.B.: Andreatta fu altresì l’autore del c.d. “divorzio” fra la Banca d’Italia ed il ministero del Tesoro: grazie a questa decisione, presa con assoluta arbitrarietà e comunicata con una semplice lettera del Ministro, da quel giorno il Tesoro non poté più obbligare la Banca d’Italia a comprare i titoli di debito pubblico rimasti non acquistati sul mercato primario, così, per incentivarne l’acquisto, lo Stato italiano fu costretto ad aumentarne il tasso di interesse, portando ad un rapidissimo aumento del debito pubblico per interessi sui titoli emessi, che portò al raddoppio dell’importo totale del debito pubblico italiano durante gli anni ottanta. Oggi i politici al governo e gli economisti neoliberisti al loro servizio ci raccontano che tale aumento fu invece dovuto all’eccessiva spesa pubblica “scriteriata” posta in essere dai “governi cicala” di quegli anni, colpa che ancor oggi noi dobbiamo espiare con i “sacrifici” che ci vengono imposti per ridurre il debito pubblico.)
L’accordo Andreatta – Van Miert impresse una forte accelerazione alle privatizzazioni, iniziate già nel 1993 con la vendita del Credito Italiano. Nonostante alcuni pareri contrari, il ministero del Tesoro scelse di non privatizzare l’IRI S.p.A., ma di smembrarla e di vendere le sue aziende operative; tale linea politica fu inaugurata sotto il primo governo di Giuliano Amato e non fu mai messa realmente in discussione dai governi successivi. Nonostante nel 1997 i livelli di indebitamento fissati dall’accordo Andreatta-Van Miert fossero già stati raggiunti, le dismissioni dell’IRI proseguirono comunque e l’Istituto perse qualsiasi funzione, se non quella di vendere le sue attività e di avviarsi verso la liquidazione.
Tra il 1992 ed il 2000 l’IRI vendette partecipazioni e rami d’azienda, che determinarono un incasso per il ministero del Tesoro, suo unico azionista, di 56.051 miliardi di lire, cui vanno aggiunti i debiti trasferiti. Suscitarono critiche le cessioni ai privati, tra le altre, di aziende in posizione pressoché monopolistica, come Telecom Italia ed Autostrade S.p.A.; cessioni che garantirono agli acquirenti posizioni di rendita.
Con un documento pubblicato il 10 febbraio 2010, ormai ultimata la stagione delle privatizzazioni che aveva preso il via quasi 20 anni prima, la Corte dei Conti ha reso pubblico uno studio nel quale elabora la propria analisi sull’efficacia dei provvedimenti adottati. Il giudizio, che rimane neutrale, segnala, sì, un recupero di redditività da parte delle aziende passate sotto il controllo privato, ma segnala che detto recupero non è dovuto alla ricerca di maggiore efficienza, quanto piuttosto all’incremento delle tariffe di energia, autostrade, banche, ecc., ben al di sopra dei livelli di altri paesi Europei. A questo aumento, inoltre, non avrebbe fatto seguito alcun progetto di investimento, volto a migliorare i servizi offerti.
Quindi, è la Corte dei Conti, e non qualche “gufo” conservatore contrario per partito preso alle “riforme”, a dichiarare e certificare che le tanto decantate privatizzazioni non comportano affatto, grazie all’osannato meccanismo della concorrenza, un miglioramento del servizio offerto ai cittadini, anzi: poiché il fine perseguito da tutte le imprese private è solo ed unicamente quello di incrementare i profitti, esse conducono a interventi gestionali di riduzioni dei costi (tramite riduzioni del personale, cioè licenziamenti, e limitazioni alla spesa per ricerca ed innovazione) ed aumento delle tariffe, possibile dato che nei settori chiave esse operano all’interno del confine nazionale o nell’ambito di “cartelli” di imprese, quindi in condizioni di sostanziale monopolio (vedi ad es., la società autostrade)
Ancora più secco è il giudizio della Corte dei Conti sulle procedure utilizzate nell’opera di privatizzazione, che:
Le poche aziende (Finmeccanica, Fincantieri, Fintecna, Alitalia e RAI) rimaste in mano all’IRI furono trasferite sotto il diretto controllo del Tesoro. Nonostante alcune proposte di mantenerlo in vita, trasformandolo in una non meglio precisata “agenzia per lo sviluppo”, il 27 giugno 2000 l’IRI fu messo in liquidazione e nel 2002 fu incorporato in Fintecna, scomparendo definitivamente. Prima di essere incorporato dalla sua controllata ha però pagato un assegno al Ministero del Tesoro di oltre 5000 miliardi di lire, naturalmente dopo aver saldato ogni suo debito.
Per un’analisi fortemente critica del percorso delle privatizzazioni, anche alla luce delle dinamiche politiche internazionali, consiglio anche la lettura di questo documento del 1993: http://www.movisol.org/draghi3.htm
Quindi, ricapitolando:
un tempo tutte le partecipazioni statali negli enti pubblici economici facevano capo agli enti di gestione (IRI, ENI, EFIM, ENEL), che agivano sotto il controllo del Ministero delle partecipazioni statali.
Ma nel 1993 venne indetto un referendum popolare per l’abolizione delle partecipazioni statali, che grazie alla consueta massiccia azione di propaganda ottenne il risultato sperato dai fautori delle privatizzazioni, consentendo la soppressione del Ministero delle partecipazioni statali e l’avvio ufficiale del processo di privatizzazione degli enti pubblici economici e delle aziende di Stato.
Nel linguaggio giornalistico l’IRI è rimasto come paradigma della mano pubblica che raccoglie partecipazioni in aziende senza troppi criteri imprenditoriali. Così enti statali come la Cassa Depositi e Prestiti e Sviluppo Italia sono stati soprannominati “nuove IRI”, con una certa connotazione negativa, a sottolinearne le finalità politiche e clientelari che tenderebbero, secondo i critici, a prevalere su quelle economiche.
E vediamo oggi come i risultati della propaganda mediatica che sostiene le privatizzazioni propugnate dai governi neoliberisti continuino a fiorire: notizia di pochi giorni fa è la programmata cessione del 32% di un ramo di Cassa depositi e prestiti a società cinesi, ad opera del ministro Padoan.
Tutto il percorso sin qui seguito percorre il sentiero tracciato dalla Commissione europea e dalla BCE (non dimentichiamo che anche nella famosa lettera di Trichet al Governo italiano, del 2011, si inseriva nella “lista di cose da fare” anche l’accellerazione sulle privatizzazioni), dando per acquisito ed automatico – perché di fanno ormai lo è – il prevalere indiscusso del diritto UE e dei suoi principi fondamentali su quelli sanciti dalla nostra Carta costituzionale.
La libertà economica riconosciuta dalla Costituzione si differenzia, difatti, dalle altre libertà fondamentali anch’esse previste nella Carta, in quanto va esercitata tenendo conto non dei soli interessi dell’imprenditore, ma anche degli interessi di quei soggetti su cui si possono riflettere le scelte aziendali. Ma quando un’azienda pubblica viene acquistata da una multinazionale straniera, tale principio viene meno, e ciò accade oggi anche quando ad acquistarla è un’impresa privata italiana che opera in ossequio alle leggi europee, che prevalgono ormai per orientamento giurisprudenziale consolidato sul nostro diritto interno e sulla nostra Costituzione.
Inoltre, recentemente, nuovi interventi normativi hanno introdotto notevoli limitazioni alla possibilità per le Pubbliche Amministrazioni di procedere alla costituzione di società pubbliche: la L. 244 del 2007 (legge finanziaria per l’anno 2008), come novellata dalla L. 69/2009, stabilisce che “al fine di tutelare la concorrenza ed il mercato, le amministrazioni … non possono costituire società aventi per oggetto attività di produzione di beni e servizi non strettamente necessarie per il perseguimento delle proprie finalità istituzionali, né assumere o mantenere direttamente partecipazioni, anche di minoranza, in tali società”: la norma è evidentemente finalizzata ad obbligare le Pubbliche Amministrazioni che ancora detengano quote di partecipazione in società miste alla dismissione delle stesse, per privatizzarle completamente, nonché ad impedire la creazione di nuove società pubbliche e miste.
La sfera di sopravvivenza dell’attività di intervento statale e pubblico nell’economia viene così sempre più ridotto ai minimi termini, fra gli applausi di soddisfazione delle platee imprenditoriali internazionali, pronte ad accaparrarsi gli ingenti profitti derivanti dalla gestione dei servizi pubblici.
Per quanto riguarda, comunque, le società pubbliche ancora esistenti, che esercitino attività di impresa, il diritto europeo tende all’equiparazione delle stesse con le società private, per evitare che, attraverso il riconoscimento di poteri speciali al socio pubblico, si possano disincentivare gli investimenti da parte di altri operatori economici, con pregiudizio alle “libertà comunitarie”.
Quindi si è stabilito che l’impresa pubblica, pur essendo un soggetto giuridico in cui i pubblici poteri esercitano un’influenza dominante, deve agire in normali condizioni di mercato, assumendone il rischi d’impresa e perseguendo finalità di lucro. In parole povere, si è svuotato il concetto di impresa pubblica del suo connotato essenziale, ovvero il fine di pubblica utilità, sostituendo ad esso il fine di lucro, dando attuazione all’obiettivo dichiarato della politica dell’Unione Europea: la tutela del mercato sopra ogni cosa, cioè degli interessi economici e finanziari dei privati, a discapito degli interessi dei popoli e dei cittadini e dei loro diritti fondamentali!
Questo è ciò che spinge avanti a passi da gigante il percorso di integrazione europea, quello per cui operano e pontificano il nostro Presidente della Repubblica Napolitano, oltre a Renzi, Letta, Monti e tutti coloro che magnificano l’Unione Europea, l’euro e gli agognati “Stati uniti d’Europa”. Un’unica nazione federale, votata al perseguimento dei fini indicati dai più biechi ed amorali centri del potere del capitalismo finanziario, le cui sedi principali si trovano negli USA, che non a caso ci vengono indicati come il modello ideale di Stato federale a cui dovremmo ispirarci.
L’esaltazione mediatica dell’economia e del sistema politico statunitensi, che non tiene minimamente conto degli enormi deficit sociali e democratici persistenti in tale sistema (in cui non vi è tutela effettiva del diritto alla salute, all’abitazione, alla dignità umana, ed in cui lo Stato consente e promuove il possesso privato di armi anche da guerra, la pena di morte e la tortura) porta i nostri cittadini ad inseguire il miraggio del “progresso” e della crescita economica sul modello americano tramite il contenitore europeo, assecondando inconsapevolmente i fini del tutto antisociali delle grandi lobby internazionali delle banche e assicurazioni, dei produttori e commercianti di armi, delle imprese petrolifere e farmaceutiche.
Nel nostro Paese, quindi, le privatizzazioni – strumento obbligato in quanto imposto dai Trattati UE per rispettare i vincoli di “stabilità” e pareggio del bilancio – sono una delle armi più importanti e più facilmente utilizzabili (insieme al controllo della moneta tramite l’euro) per assicurare a suddette lobby il consolidamento e l’ampliamento delle proprie posizioni di potere, sino al raggiungimento del completo dominio sull’economia, la politica e quindi sull’intero territorio nazionale.
Francesca Donato
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