Dalla rassegna stampa di stamattina, come da quella di ogni giorno, piovono analisi ed editoriali che “spiegano” (malissimo) ai lettori inesperti perché la deflazione è un problema – ammettendo finalmente che lo è – giungendo poi, con avvitamenti logici dagli esiti del tutto risibili, che la soluzione è ancora una volta “ridurre il debito pubblico”, che sarebbe il nostro “vero cappio al collo”.
Per farla breve – ma non troppo – basterebbe spiegare che la deflazione, cioè il calo dei prezzi al consumo, è l’ovvia conseguenza del calo delle disponibilità economiche nelle tasche dei cittadini (e quindi è innanzitutto un sintomo della crisi), ma oltre a questo ha come effetto il calo dei ricavi dei commercianti, che si riflette in difficoltà a far fronte ai costi di gestione (pagamento fornitori, tasse, spese di esercizio) che a loro volta esitano in due modi: licenziamento dei dipendenti (per ridurre i costi) e, quindi, maggiore disoccupazione; o addirittura fallimento e chiusura dell’attività, con mancata copertura dei debiti verso fornitori (che a loro volta entrano in crisi), dipendenti (che non prendono stipendi arretrati, TFR, ecc., oltre a perdere il lavoro) e Stato ( con tasse che non verranno mai pagate).
Da ciò deriva anche che i soggetti rimasti senza lavoro e senza soldi (imprenditori falliti e dipendenti a spasso) non potranno più pagare gli eventuali finanziamenti contratti con le banche in tempi migliori, e così aumenteranno le “sofferenze” bancarie, cioè i crediti non solvibili, che vanno ad indebolire i bilanci già scricchiolanti di queste ultime mettendo a rischio le loro quotazioni in borsa, che scenderanno creando ulteriori perdite sui mercati finanziari, timori per il loro fallimento e conseguente corsa agli sportelli dei risparmiatori per ritirare i propri depositi o investimenti, anche grazie alla brillante idea del bail-in, che giustamente ha creato il panico con annessa fuga di capitali (ancora in corso) dalle nostre banche, verso istituti esteri ritenuti più affidabili.
Come si vede, la deflazione innesca un circolo vizioso ed una spirale recessiva da cui è difficilissimo uscire. L’esempio tipico di tale trappola è dato dal Giappone, che dopo anni di deflazione ha messo in campo misure espansive considerate folli, che però hanno sortito effetti molto inferiori alle aspettative (l’inflazione stenta ancora a raggiungere il 2%).
I più autorevoli economisti americani (in quanto estranei alla propaganda UE) affermano da tempo che l’unico modo per uscire da tale pozzo ormai – assodata l’inutilità del QE pro-banche centrali della BCE, che eroga soldi destinati a fermarsi nelle banche, con zero effetti nell’economia reale – sia l'”helicopter money”, cioè, letteralmente, il lancio di monete dagli elicotteri sulle teste dei cittadini. Fuor di metafora – e non è uno scherzo – si parla seriamente di un nuovo QE fatto accreditando DIRETTAMENTE circa mille euro al mese sui conti di tutti i cittadini dei Paesi in crisi, per un tot di anni, finché almeno non risale l’inflazione! Sembra folle? Beh, lo è di meno se si esce della prospettiva della Banca centrale indipendente gestita dai Paesi più forti, e comunque sarebbe nei fatti l’unico espediente davvero efficace. Non illudiamoci che verrà messo in atto, ma rendiamoci conto di quanto, in tutto questo discorso, la misura del debito pubblico non conti un tubo.
Sono anni ormai che, invece, l’informazione economica è subdolamente manipolata e fuorviata in modo da convincere i cittadini che la crisi dell’eurozona è nata da una crescita “fuori controllo” del debito pubblico nei Paesi dell’area periferica, a causa della “spesa dissennata”, con consequenziale moralistica condanna di chi ha governato “pensando al proprio interesse” senza pensare al futuro delle nuove generazioni, ed addossando ai “nostri figli” il “peso del debito”, che dovranno ripagare di tasca loro.
In questo scenario propagandistico, finalizzato unicamente a legittimare, in vista del “dovere” di ridurre il debito, i tagli alla spesa pubblica, gli aumenti di tasse e le privatizzazioni, sono riuscite a filtrare le opinioni del tutto discordanti di economisti di grande autorevolezza e – soprattutto – autentica indipendenza dagli interessi lobbistici sovranazionali, che spiegavano in vari modi e con grande chiarezza perché invece il debito pubblico non ha nulla a che vedere con la crisi economica, e anzi, come l’obiettivo di ridurlo tramite applicazione di politiche di austerity abbia l’effetto di produrre recessione con esiti deflazionistici.
Tali sparute opinioni sono via via divenute sempre più frequenti e condivise, fino a incontrare l’adesione anche di molti economisti prima “allineati” e degli organismi ufficiali che più di tutti avevano sostenuto e raccomandato le misure di austerità (uno fra tutti, il FMI). In pratica, ormai quasi tutti ammettono che tentare di ridurre il debito pubblico tagliando la spesa in momenti di crisi è come darsi la zappa sui piedi, perché fa calare solo il PIL ed aumentare, in proporzione, proprio lo stesso debito pubblico.
Si sono così verificate alla lettera tutte le previsioni formulate anni addietro dai critici della Troika (euroscettici in primis), ovvero: aumento della disoccupazione, stagnazione del PIL, deflazione, inefficacia del QE della BCE (ammesso ora pure da Draghi), aumento del sentimento nazionalistico con compromissione della già labile coesione fra i Paesi UE, aumento del debito pubblico (anche se non dovrebbe fregarcene nulla, ora) in tutti i Paesi in crisi. Per esempio: da fine governo Berlusconi ad oggi (2011 – 2016) il nostro debito pubblico è passato dal 110% del PIL al 132% circa. Più chiaro dei numeri, ci sono poche cose.
Eppure, nonostante l’evidenza solare del fallimento assoluto delle politiche di austerity e l’ammissione sempre più diffusa (quasi unanime ormai, almeno fra chi non è in conflitto di interessi) della responsabilità principale del sistema della moneta unica nella produzione della crisi economica in Europa (e non solo in Italia!) – che finalmente si riconosce essere una crisi di domanda e non, come falsamente affermato per anni, di “produttività” – ancora i media ufficiali, finanziati dalla politica filo-UE, persistono nel veicolare le false diagnosi e le presunte cure, a base di salassi continui su organismi ormai esangui, attraverso la perpetrazione di politiche di tagli alla spesa pubblica per ridurre lo stock di debito pubblico. Col risultato che si è visto in Grecia: la totale distruzione delle economie nazionali, a vantaggio degli investitori esteri che comprano a prezzi di outlet tutti gli asset produttivi dei Paesi al tracollo, agevolati dagli immancabili piani di privatizzazioni, per “fare cassa”.
La responsabilità morale e politica di tutti coloro che hanno sostenuto e continuano a sostenere, in ogni modo, tale scempio a prezzo della vita dei cittadini europei, è immane, e spero che un giorno tutti costoro verranno chiamati a risponderne, pagandone il prezzo come di giustizia.
Per ora, l’unica azione possibile da parte di chi si è “svegliato” è esercitare un’opposizione frontale contro quest’opera di spoliazione sistematica, attraverso la diffusione di corretta informazione ed azioni di protesta di ogni tipo, idonee a mettere il più possibile, almeno, i bastoni fra le ruote a chi lavora contro di noi in nome del “rispetto delle regole” dettate dagli oligarchi UE, regole unanimemente riconosciute come assurde e deleterie, ma nonostante ciò tuttora propugnate come ineludibili ed assistite da severissime ed inevitabili sanzioni per chi non le rispetta.
Si assiste, peraltro, al tentativo, da parte di alcuni leader europei, ultimo in ordine di tempo il nostro Renzi, di mettere in discussione la bontà di tali regole, quanto meno per giungere al riconoscimento dell’impossibilità (nei fatti già evidente da anni) di rispettare i vincoli di bilancio in momenti di recessione/stagnazione, se si vuole avere una chance di fa ripartire la crescita.
Così, per mantenere il piede in due staffe, i governi di Paesi come Francia, Italia e Grecia da un lato “accettano” le regole, dall’altro “chiedono il permesso” di sforare un pochettino, o un po’ di più, a causa della situazione contingente che richiede di effettuare investimenti con spesa in deficit.
Già, perché anche la necessità imprescindibile di investimenti pubblici (non più solo privati, tramite i tanto decantati “investitori esteri”) è stata ormai sdoganata, vista l’ammissione in tal senso ormai bipartisan, addirittura sostenuta dal campione dell’austerity Mario Monti, nelle sue ultime dichiarazioni.
E poiché, nel sistema della moneta unica, con l’euro gestito e prestato alle banche centrali nazionali dalla BCE dietro interesse, la spesa a deficit comporta creazione di debito pubblico sempre crescente, è evidente come la possibilità di ridurre quest’ultimo sia contraddetta dalle stesse manovre economiche dei governi ancora “allineati” ai diktat dell’UE.
In parole povere, per essere più chiari: la Francia ha chiesto ed ottenuto di sforare il tetto del deficit del 3%, previsto dal trattato di Maastricht, di vari punti, per aumentare la spesa pubblica. L’Italia, con Renzi, si vanta di essere l’unico Paese che rispetta i vincoli, perché sta sotto il 3%, ma chiede il permesso di non rispettare l’altro vincolo cui si è volontariamente ed autolesionisticamente assoggettata (unica in Europa), cioè il rispetto da subito del fiscal compact, che impone la riduzione progressiva del deficit fino al pareggio del bilancio, cioè deficit massimo dello 0,5%. E questo perché, grazie all’efficientissimo governo Monti, nel 2012 abbiamo introdotto (unico Paese in tutta l’UE, ribadisco) il pareggio di bilancio obbligatorio in Costituzione, con l’effetto di rendere illegittime per violazione di norma costituzionale tutte le leggi finanziarie (che ormai si chiamano “manovre di stabilità”) che non tendano al pareggio! Di questo aspetto non si parla mai, e Renzi si guarda bene dal farlo notare, complice anche il silenzio di colui che dovrebbe vigilare sul rispetto della Costituzione (anche se ormai snaturata nella sua essenza), ovvero il Capo dello Stato.
Quindi, per ricapitolare, assistiamo al seguente paradosso: facciamo le “riforme strutturali” che ci ha chiesto l’UE, stravolgendo la Costituzione con modifiche che condurranno ad un governo libero dal confronto con l’opposizione (quindi, praticamente, autoritario), senza toccare le norme che più di ogni altra ci impediscono di risollevarci dalla crisi, ovvero quelle sul pareggio del bilancio.
Sempre tramite le decantate riforme, allontaniamo l’età pensionabile togliendo lavoro ai giovani; diminuiamo gli assegni pensionistici, togliendo ai cittadini capacità di spesa e quindi mortificando ancor più i consumi, con la ovvia conseguenza di creare ulteriore deflazione; portiamo avanti l’agenda delle privatizzazioni, svendendo a privati spesso stranieri gli asset produttivi più importanti e sicuri che un tempo reggevano e facevano correre la nostra economia, causando così il calo delle entrate di bilancio pubbliche e del PIL e, di conseguenza, l’aumento del debito pubblico, visto che i due stanno in rapporto proporzionale fra loro.
Ma facendo tutto questo, rivendichiamo il ruolo di “combattenti” contro l’austerity (che invece applichiamo a man bassa) perché chiediamo di non ridurre il deficit, ancora per quest’anno, di qualche frazione di punto!…
In ciò si legge tutta l’ipocrisia e l’incompetenza di chi ci governa: afferma di voler ridurre il debito pubblico, dicendo che “quello è il problema”, mentre invece mira ad aumentarlo facendo più deficit (perché sa che altrimenti i conti vanno a picco, e non se lo può permettere un leader che punta ad essere rieletto!); usa poi i margini di spesa ottenuti per ridurre (apparentemente) le tasse a determinate categorie di cittadini lavoratori, senza effettuare investimenti adeguati per sostenere davvero la domanda interna, come opere infrastrutturali (di cui avremmo un disperato bisogno, specie al sud), sussidi alla ricerca scientifica (che soffre da anni di scarsità inaccettabile di risorse), sostegno alle famiglie ed imprese in crisi attraverso il vero pagamento dei debiti ancora insoluti della PA verso le imprese, ed una vera moratoria fiscale che consenta a chi è impossibilitato a far fronte a sanzioni ed interessi insostenibili, di ritornare in bonis col fisco, ricominciando a lavorare, e consentendo al bilancio pubblico un effettivo recupero del gettito fiscale insoluto ed altrimenti irrealizzabile.
Di tutte queste misure non v’è traccia nelle manovre finanziarie dei nostri governi, e non potrà d’altronde essercene finché le stesse manovre saranno soggette al vaglio ed all’approvazione della Commissione europea, che – ricordo – ha il potere assoluto di modificarle a proprio piacimento, imponendoci di adeguarci a pena di sanzioni. Se non fosse ancora chiaro: la nostra politica interna è scritta a Bruxelles. Noi possiamo solo eseguire ordini. E quegli ordini non sono dettati con l’obiettivo di sostenere la crescita del nostro Paese, perché chi li emette sono i nostri principali concorrenti sul mercato globale.
Ci siamo iscritti ad un circolo in cui ogni membro guadagna punti e vantaggi a danno degli altri ed in cui il nostro portafoglio, e le nostre vite, sono gestiti dai nostri avversari, che fingiamo siano nostri partners.
Finché restiamo dentro questo sistema, non ci saranno minacce, né suppliche, ne altri mezzi per ottenere di poter fare le politiche che servono al nostro Paese. Questa è l’amara realtà, quella che i gerarchi della UE ed i loro accoliti continuano a negare fraudolentemente, perché dalla sopravvivenza di questo sistema dipendono i loro interessi personali. Resta a noi scegliere se continuare ad accettare di subordinare il nostro interesse pubblico a quello privato dei banchieri e dei grandi imprenditori delle multinazionali che reggono l’UE, o no.
Se non siamo disposti a continuare così, ci resta solo una cosa da pretendere, a gran voce: l’uscita dall’euro e dalla UE, il prima possibile, con la consapevolezza – al di là delle menzogne della propaganda – che i costi dell’uscita saranno comunque molto inferiori ai costi pagati sinora e che ancora pagheremo per restare nel sistema più distruttivo ed antidemocratico della storia.
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L’INSOSTENIBILE DEBOLEZZA DELLA FANDONIA MAINSTREAM: “IL PROBLEMA E’ IL DEBITO PUBBLICO”.
1 marzo 2016
Dalla rassegna stampa di stamattina, come da quella di ogni giorno, piovono analisi ed editoriali che “spiegano” (malissimo) ai lettori inesperti perché la deflazione è un problema – ammettendo finalmente che lo è – giungendo poi, con avvitamenti logici dagli esiti del tutto risibili, che la soluzione è ancora una volta “ridurre il debito pubblico”, che sarebbe il nostro “vero cappio al collo”.
Per farla breve – ma non troppo – basterebbe spiegare che la deflazione, cioè il calo dei prezzi al consumo, è l’ovvia conseguenza del calo delle disponibilità economiche nelle tasche dei cittadini (e quindi è innanzitutto un sintomo della crisi), ma oltre a questo ha come effetto il calo dei ricavi dei commercianti, che si riflette in difficoltà a far fronte ai costi di gestione (pagamento fornitori, tasse, spese di esercizio) che a loro volta esitano in due modi: licenziamento dei dipendenti (per ridurre i costi) e, quindi, maggiore disoccupazione; o addirittura fallimento e chiusura dell’attività, con mancata copertura dei debiti verso fornitori (che a loro volta entrano in crisi), dipendenti (che non prendono stipendi arretrati, TFR, ecc., oltre a perdere il lavoro) e Stato ( con tasse che non verranno mai pagate).
Da ciò deriva anche che i soggetti rimasti senza lavoro e senza soldi (imprenditori falliti e dipendenti a spasso) non potranno più pagare gli eventuali finanziamenti contratti con le banche in tempi migliori, e così aumenteranno le “sofferenze” bancarie, cioè i crediti non solvibili, che vanno ad indebolire i bilanci già scricchiolanti di queste ultime mettendo a rischio le loro quotazioni in borsa, che scenderanno creando ulteriori perdite sui mercati finanziari, timori per il loro fallimento e conseguente corsa agli sportelli dei risparmiatori per ritirare i propri depositi o investimenti, anche grazie alla brillante idea del bail-in, che giustamente ha creato il panico con annessa fuga di capitali (ancora in corso) dalle nostre banche, verso istituti esteri ritenuti più affidabili.
Come si vede, la deflazione innesca un circolo vizioso ed una spirale recessiva da cui è difficilissimo uscire. L’esempio tipico di tale trappola è dato dal Giappone, che dopo anni di deflazione ha messo in campo misure espansive considerate folli, che però hanno sortito effetti molto inferiori alle aspettative (l’inflazione stenta ancora a raggiungere il 2%).
I più autorevoli economisti americani (in quanto estranei alla propaganda UE) affermano da tempo che l’unico modo per uscire da tale pozzo ormai – assodata l’inutilità del QE pro-banche centrali della BCE, che eroga soldi destinati a fermarsi nelle banche, con zero effetti nell’economia reale – sia l'”helicopter money”, cioè, letteralmente, il lancio di monete dagli elicotteri sulle teste dei cittadini. Fuor di metafora – e non è uno scherzo – si parla seriamente di un nuovo QE fatto accreditando DIRETTAMENTE circa mille euro al mese sui conti di tutti i cittadini dei Paesi in crisi, per un tot di anni, finché almeno non risale l’inflazione! Sembra folle? Beh, lo è di meno se si esce della prospettiva della Banca centrale indipendente gestita dai Paesi più forti, e comunque sarebbe nei fatti l’unico espediente davvero efficace. Non illudiamoci che verrà messo in atto, ma rendiamoci conto di quanto, in tutto questo discorso, la misura del debito pubblico non conti un tubo.
Sono anni ormai che, invece, l’informazione economica è subdolamente manipolata e fuorviata in modo da convincere i cittadini che la crisi dell’eurozona è nata da una crescita “fuori controllo” del debito pubblico nei Paesi dell’area periferica, a causa della “spesa dissennata”, con consequenziale moralistica condanna di chi ha governato “pensando al proprio interesse” senza pensare al futuro delle nuove generazioni, ed addossando ai “nostri figli” il “peso del debito”, che dovranno ripagare di tasca loro.
In questo scenario propagandistico, finalizzato unicamente a legittimare, in vista del “dovere” di ridurre il debito, i tagli alla spesa pubblica, gli aumenti di tasse e le privatizzazioni, sono riuscite a filtrare le opinioni del tutto discordanti di economisti di grande autorevolezza e – soprattutto – autentica indipendenza dagli interessi lobbistici sovranazionali, che spiegavano in vari modi e con grande chiarezza perché invece il debito pubblico non ha nulla a che vedere con la crisi economica, e anzi, come l’obiettivo di ridurlo tramite applicazione di politiche di austerity abbia l’effetto di produrre recessione con esiti deflazionistici.
Tali sparute opinioni sono via via divenute sempre più frequenti e condivise, fino a incontrare l’adesione anche di molti economisti prima “allineati” e degli organismi ufficiali che più di tutti avevano sostenuto e raccomandato le misure di austerità (uno fra tutti, il FMI). In pratica, ormai quasi tutti ammettono che tentare di ridurre il debito pubblico tagliando la spesa in momenti di crisi è come darsi la zappa sui piedi, perché fa calare solo il PIL ed aumentare, in proporzione, proprio lo stesso debito pubblico.
Si sono così verificate alla lettera tutte le previsioni formulate anni addietro dai critici della Troika (euroscettici in primis), ovvero: aumento della disoccupazione, stagnazione del PIL, deflazione, inefficacia del QE della BCE (ammesso ora pure da Draghi), aumento del sentimento nazionalistico con compromissione della già labile coesione fra i Paesi UE, aumento del debito pubblico (anche se non dovrebbe fregarcene nulla, ora) in tutti i Paesi in crisi. Per esempio: da fine governo Berlusconi ad oggi (2011 – 2016) il nostro debito pubblico è passato dal 110% del PIL al 132% circa. Più chiaro dei numeri, ci sono poche cose.
Eppure, nonostante l’evidenza solare del fallimento assoluto delle politiche di austerity e l’ammissione sempre più diffusa (quasi unanime ormai, almeno fra chi non è in conflitto di interessi) della responsabilità principale del sistema della moneta unica nella produzione della crisi economica in Europa (e non solo in Italia!) – che finalmente si riconosce essere una crisi di domanda e non, come falsamente affermato per anni, di “produttività” – ancora i media ufficiali, finanziati dalla politica filo-UE, persistono nel veicolare le false diagnosi e le presunte cure, a base di salassi continui su organismi ormai esangui, attraverso la perpetrazione di politiche di tagli alla spesa pubblica per ridurre lo stock di debito pubblico. Col risultato che si è visto in Grecia: la totale distruzione delle economie nazionali, a vantaggio degli investitori esteri che comprano a prezzi di outlet tutti gli asset produttivi dei Paesi al tracollo, agevolati dagli immancabili piani di privatizzazioni, per “fare cassa”.
La responsabilità morale e politica di tutti coloro che hanno sostenuto e continuano a sostenere, in ogni modo, tale scempio a prezzo della vita dei cittadini europei, è immane, e spero che un giorno tutti costoro verranno chiamati a risponderne, pagandone il prezzo come di giustizia.
Per ora, l’unica azione possibile da parte di chi si è “svegliato” è esercitare un’opposizione frontale contro quest’opera di spoliazione sistematica, attraverso la diffusione di corretta informazione ed azioni di protesta di ogni tipo, idonee a mettere il più possibile, almeno, i bastoni fra le ruote a chi lavora contro di noi in nome del “rispetto delle regole” dettate dagli oligarchi UE, regole unanimemente riconosciute come assurde e deleterie, ma nonostante ciò tuttora propugnate come ineludibili ed assistite da severissime ed inevitabili sanzioni per chi non le rispetta.
Si assiste, peraltro, al tentativo, da parte di alcuni leader europei, ultimo in ordine di tempo il nostro Renzi, di mettere in discussione la bontà di tali regole, quanto meno per giungere al riconoscimento dell’impossibilità (nei fatti già evidente da anni) di rispettare i vincoli di bilancio in momenti di recessione/stagnazione, se si vuole avere una chance di fa ripartire la crescita.
Così, per mantenere il piede in due staffe, i governi di Paesi come Francia, Italia e Grecia da un lato “accettano” le regole, dall’altro “chiedono il permesso” di sforare un pochettino, o un po’ di più, a causa della situazione contingente che richiede di effettuare investimenti con spesa in deficit.
Già, perché anche la necessità imprescindibile di investimenti pubblici (non più solo privati, tramite i tanto decantati “investitori esteri”) è stata ormai sdoganata, vista l’ammissione in tal senso ormai bipartisan, addirittura sostenuta dal campione dell’austerity Mario Monti, nelle sue ultime dichiarazioni.
E poiché, nel sistema della moneta unica, con l’euro gestito e prestato alle banche centrali nazionali dalla BCE dietro interesse, la spesa a deficit comporta creazione di debito pubblico sempre crescente, è evidente come la possibilità di ridurre quest’ultimo sia contraddetta dalle stesse manovre economiche dei governi ancora “allineati” ai diktat dell’UE.
In parole povere, per essere più chiari: la Francia ha chiesto ed ottenuto di sforare il tetto del deficit del 3%, previsto dal trattato di Maastricht, di vari punti, per aumentare la spesa pubblica. L’Italia, con Renzi, si vanta di essere l’unico Paese che rispetta i vincoli, perché sta sotto il 3%, ma chiede il permesso di non rispettare l’altro vincolo cui si è volontariamente ed autolesionisticamente assoggettata (unica in Europa), cioè il rispetto da subito del fiscal compact, che impone la riduzione progressiva del deficit fino al pareggio del bilancio, cioè deficit massimo dello 0,5%. E questo perché, grazie all’efficientissimo governo Monti, nel 2012 abbiamo introdotto (unico Paese in tutta l’UE, ribadisco) il pareggio di bilancio obbligatorio in Costituzione, con l’effetto di rendere illegittime per violazione di norma costituzionale tutte le leggi finanziarie (che ormai si chiamano “manovre di stabilità”) che non tendano al pareggio! Di questo aspetto non si parla mai, e Renzi si guarda bene dal farlo notare, complice anche il silenzio di colui che dovrebbe vigilare sul rispetto della Costituzione (anche se ormai snaturata nella sua essenza), ovvero il Capo dello Stato.
Quindi, per ricapitolare, assistiamo al seguente paradosso: facciamo le “riforme strutturali” che ci ha chiesto l’UE, stravolgendo la Costituzione con modifiche che condurranno ad un governo libero dal confronto con l’opposizione (quindi, praticamente, autoritario), senza toccare le norme che più di ogni altra ci impediscono di risollevarci dalla crisi, ovvero quelle sul pareggio del bilancio.
Sempre tramite le decantate riforme, allontaniamo l’età pensionabile togliendo lavoro ai giovani; diminuiamo gli assegni pensionistici, togliendo ai cittadini capacità di spesa e quindi mortificando ancor più i consumi, con la ovvia conseguenza di creare ulteriore deflazione; portiamo avanti l’agenda delle privatizzazioni, svendendo a privati spesso stranieri gli asset produttivi più importanti e sicuri che un tempo reggevano e facevano correre la nostra economia, causando così il calo delle entrate di bilancio pubbliche e del PIL e, di conseguenza, l’aumento del debito pubblico, visto che i due stanno in rapporto proporzionale fra loro.
Ma facendo tutto questo, rivendichiamo il ruolo di “combattenti” contro l’austerity (che invece applichiamo a man bassa) perché chiediamo di non ridurre il deficit, ancora per quest’anno, di qualche frazione di punto!…
In ciò si legge tutta l’ipocrisia e l’incompetenza di chi ci governa: afferma di voler ridurre il debito pubblico, dicendo che “quello è il problema”, mentre invece mira ad aumentarlo facendo più deficit (perché sa che altrimenti i conti vanno a picco, e non se lo può permettere un leader che punta ad essere rieletto!); usa poi i margini di spesa ottenuti per ridurre (apparentemente) le tasse a determinate categorie di cittadini lavoratori, senza effettuare investimenti adeguati per sostenere davvero la domanda interna, come opere infrastrutturali (di cui avremmo un disperato bisogno, specie al sud), sussidi alla ricerca scientifica (che soffre da anni di scarsità inaccettabile di risorse), sostegno alle famiglie ed imprese in crisi attraverso il vero pagamento dei debiti ancora insoluti della PA verso le imprese, ed una vera moratoria fiscale che consenta a chi è impossibilitato a far fronte a sanzioni ed interessi insostenibili, di ritornare in bonis col fisco, ricominciando a lavorare, e consentendo al bilancio pubblico un effettivo recupero del gettito fiscale insoluto ed altrimenti irrealizzabile.
Di tutte queste misure non v’è traccia nelle manovre finanziarie dei nostri governi, e non potrà d’altronde essercene finché le stesse manovre saranno soggette al vaglio ed all’approvazione della Commissione europea, che – ricordo – ha il potere assoluto di modificarle a proprio piacimento, imponendoci di adeguarci a pena di sanzioni. Se non fosse ancora chiaro: la nostra politica interna è scritta a Bruxelles. Noi possiamo solo eseguire ordini. E quegli ordini non sono dettati con l’obiettivo di sostenere la crescita del nostro Paese, perché chi li emette sono i nostri principali concorrenti sul mercato globale.
Ci siamo iscritti ad un circolo in cui ogni membro guadagna punti e vantaggi a danno degli altri ed in cui il nostro portafoglio, e le nostre vite, sono gestiti dai nostri avversari, che fingiamo siano nostri partners.
Finché restiamo dentro questo sistema, non ci saranno minacce, né suppliche, ne altri mezzi per ottenere di poter fare le politiche che servono al nostro Paese. Questa è l’amara realtà, quella che i gerarchi della UE ed i loro accoliti continuano a negare fraudolentemente, perché dalla sopravvivenza di questo sistema dipendono i loro interessi personali. Resta a noi scegliere se continuare ad accettare di subordinare il nostro interesse pubblico a quello privato dei banchieri e dei grandi imprenditori delle multinazionali che reggono l’UE, o no.
Se non siamo disposti a continuare così, ci resta solo una cosa da pretendere, a gran voce: l’uscita dall’euro e dalla UE, il prima possibile, con la consapevolezza – al di là delle menzogne della propaganda – che i costi dell’uscita saranno comunque molto inferiori ai costi pagati sinora e che ancora pagheremo per restare nel sistema più distruttivo ed antidemocratico della storia.