Facciamo qualche riflessione intorno alla recente nomina di Marta Cartabia alla Presidenza della Corte Costituzionale.
Bene, dopo il suo insediamento, il commento più acuto dei giornaloni è stato: «Marta Cartabia è la prima donna a presiedere la Consulta!».
Ora: un osservatore attento non può non notare come, quando un particolare così insignificante viene sottolineato, è facile che dei contenuti più interessanti rimangano in ombra. Se una società in cui il progresso sociale ha portato – come recita il capoverso dell’art.3 Cost. – a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…che…[limitano] di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini» riesce a far in modo che prestigiose cariche istituzionali vengano affidate a persone appartenenti a gruppi sociali storicamente svantaggiati, i democratici non possono che rallegrarsene. Ma, quando la polarizzazione della ricchezza, la disuguaglianza, l’ingiustizia sociale e tutti quegl’indicatori che segnalano una democrazia in salute sono in profondo rosso come mai nella storia moderna, il sospetto di trovarsi in realtà di fronte a un’ulteriore azione regressiva sorge spontaneo. Forse l’elezione di Obama significava qualcosa rispetto alla condizione afroamericana? Forse che l’elezione di una bisessuale alla vicepresidenza di una regione è sintomo di qualche particolare riscatto sociale? I disoccupati, qualsiasi origine od orientamento sessuale abbiano, sono sempre più numerosi. E allora perché si passa questo strano messaggio di «conquista civile»?
Individuiamo almeno due motivi:
si distrae dai contenuti classisti e oppressivi di persone che incarnano determinate agende politiche;
si alimenta una narrazione “colorata” come cosmesi alla violenta ristrutturazione economica, sociale e politica in atto da decenni.
Chi non fosse già stato a conoscenza dell’ideologia che orienta le azioni istituzionali del nuovo presidente della Corte Costituzionale, ha potuto – poco tempo dopo la sua elezione – farsene un’idea dopo il suo clamoroso annuncio: «la Corte si aprirà alla società civile».
L’osservatore non aduso a interpretare il lessico neoliberale potrebbe pensare: «ottima idea! Finalmente le istituzioni si aprono ai comuni cittadini, alle associazioni etiche… che passo verso una democrazia compiuta!». Niente di più lontano dalla realtà.
Come ricorda l’art.49 della Costituzione, le organizzazioni in cui ci si associa per concorrere «a determinare la politica nazionale» sono i «partiti». La vita politica è in democrazia il concorrere a perseguire gli interessi generali, quindi essa è la vita pubblica per eccellenza.
Nelle democrazie moderne la comunità sociale tende a identificarsi con lo Stato tramite la partecipazione alla vita pubblica, sicché la dimensione comunitaria assume un ruolo determinante: la progressiva rimozione delle disuguaglianze e delle ingiustizie che escludono dalla «vita politica, economica e sociale del Paese» è volta a permettere il superamento della contrapposizione tra Stato – ente generale volto a curare gli interessi pubblici – e «società civile», portatrice di interessi particolari, privati.
Il neoliberalismo, sulla scorta del liberalismo classico, ottocentesco, insiste invece sulla separazione tra la sfera politica e quella economica, quindi sulla contrapposizione tra Stato e società civile. Va da sé che la società civile non è composta da gruppi e individui privati omogenei, quindi questa – in una società frazionata in classi – rappresenta per struttura i grandi interessi economici.
Le stesse organizzazioni no profit, a dispetto della narrazione mediatica, sono parte delle società civile che per finanziamento diretto o per influenza indiretta, sono tendenzialmente espressione ideologica delle forze economiche e degli interessi materiali che alcuni centri privati di interesse portano.
«…i regimi neoliberali, la Banca Mondiale e le fondazioni occidentali… coopta[no] e usa[no] le ONG per sottrarre allo Stato nazionale le funzioni di protezione e servizi sociali tese a compensare le vittime degli effetti delle corporazioni multinazionali […] Mentre dall’alto i regimi neoliberali devasta[no] le popolazioni inondando i rispettivi paesi con importazioni a basso prezzo estraendo il pagamento del debito estero, abolendo la legislazione lavorativa …e creando una massa crescente di operai a basso salario o disoccupati, le ONG [sono] finanziate per provvedere a progetti di “auto-aiuto”, di “educazione popolare” e di “qualificazione lavorativa” tese ad assorbire temporaneamente gruppi di bisognosi, a cooptare i leader locali per sottrarli alla lotta contro il sistema. L’antistatalismo è stato il libretto ideologico di transito da una politica di classe a una politica di “sviluppo comunitario”» [J. Petras, 1997]
Lo sviluppo del cosiddetto «terzo settore», che con l’ordine mercatista neoliberale si pone come sussidiario allo Stato, corrisponde di fatto alla riduzione del perimetro dello Stato, e, segnatamente, dello Stato sociale.
Stato sociale previsto dalle costituzioni democratiche moderne in quanto ritenuto funzionale a rendere effettiva la democrazia. Poiché lo Stato sociale può essere visto come un reddito indiretto che tempera le disuguaglianze sociali e protegge i ceti meno abbienti, va da sè che al riparo della cosmesi ideologica, le forze economiche che incarnano di fatto tanto la «società civile» quanto il «terzo settore », accrescono i profitti a scapito della classe lavoratrice e, di converso, accrescono la propria influenza politica nel momento in cui sempre meno lavoratori non vedono ostacolata la propria partecipazione alla vita pubblica per motivi socioeconomici.
Quindi, all’impoverimento generale ed alla sempre più inaccettabile ingiustizia sociale, corrisponde strutturalmente un aumento dell’influenza economica dei privati, che direttamente – tramite attività di lobby – o indirettamente – tramite gruppi di pressione ideologica, come spesso si configurano le più influenti associazioni no profit – portano i loro interessi particolari nelle istituzioni. È, pertanto, evidente che questi sviluppi sono assolutamente regressivi e contrari all’orientamento teleologicamente imposto alle istituzioni dalla Costituzione.
Tratteggiato rapidamente questo scenario, non ci stupisce che il principale organo di garanzia costituzionale previsto dalla Carta «si apra alla società civile»: si prende atto che i centri di interesse privato non solo agiscono al di fuori da qualsiasi cornice legalitario-costituzionale, grazie alla costruzione eurounionista che ha imposto riforme di struttura neo-liberale agli Stati aderenti (in Italia manifestamente «contra constitutionem») ma avocano altresì a sè l’influenza diretta sull’unica istituzione che potrebbe porre rimedio allo scempio della democrazia costituzionale: la Corte Costituzionale.
In breve, i cosiddetti «amici della Corte» a cui la Consulta «si aprirà» si riveleranno essere nient’altro che le lobby (gruppi di pressione che perseguono interessi particolari), che sono per definizione «nemici» degli interessi generali.
«… Le Ong fomentano un nuovo tipo di dipendenza e di colonialismo economico e culturale. I progetti sono disegnati, o almeno approvati, sulla base dei lineamenti e delle priorità dei centri imperiali e delle loro istituzioni. Le valutazioni vengono fatte da queste e per queste. I nuovi vicerè supervisionano e assicurano la conformità degli obiettivi, dei valori e dell’ideologia dei donatori così come l’uso appropriato dei fondi. Lì dove ci sono i “risultati”, questi sono fortemente dipendenti dal continuo appoggio esterno, senza il quale fallirebbero…» [J. Petras, Progetti di solidarietà o “neoliberalismo dal basso”? Le pesanti ambiguità dell’azione delle Organizzazioni Non Governative]
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Lobbismo, politica e diritto
Facciamo qualche riflessione intorno alla recente nomina di Marta Cartabia alla Presidenza della Corte Costituzionale.
Bene, dopo il suo insediamento, il commento più acuto dei giornaloni è stato: «Marta Cartabia è la prima donna a presiedere la Consulta!».
Ora: un osservatore attento non può non notare come, quando un particolare così insignificante viene sottolineato, è facile che dei contenuti più interessanti rimangano in ombra. Se una società in cui il progresso sociale ha portato – come recita il capoverso dell’art.3 Cost. – a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale…che…[limitano] di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini» riesce a far in modo che prestigiose cariche istituzionali vengano affidate a persone appartenenti a gruppi sociali storicamente svantaggiati, i democratici non possono che rallegrarsene. Ma, quando la polarizzazione della ricchezza, la disuguaglianza, l’ingiustizia sociale e tutti quegl’indicatori che segnalano una democrazia in salute sono in profondo rosso come mai nella storia moderna, il sospetto di trovarsi in realtà di fronte a un’ulteriore azione regressiva sorge spontaneo. Forse l’elezione di Obama significava qualcosa rispetto alla condizione afroamericana? Forse che l’elezione di una bisessuale alla vicepresidenza di una regione è sintomo di qualche particolare riscatto sociale? I disoccupati, qualsiasi origine od orientamento sessuale abbiano, sono sempre più numerosi. E allora perché si passa questo strano messaggio di «conquista civile»?
Individuiamo almeno due motivi:
Chi non fosse già stato a conoscenza dell’ideologia che orienta le azioni istituzionali del nuovo presidente della Corte Costituzionale, ha potuto – poco tempo dopo la sua elezione – farsene un’idea dopo il suo clamoroso annuncio: «la Corte si aprirà alla società civile».
L’osservatore non aduso a interpretare il lessico neoliberale potrebbe pensare: «ottima idea! Finalmente le istituzioni si aprono ai comuni cittadini, alle associazioni etiche… che passo verso una democrazia compiuta!». Niente di più lontano dalla realtà.
Come ricorda l’art.49 della Costituzione, le organizzazioni in cui ci si associa per concorrere «a determinare la politica nazionale» sono i «partiti». La vita politica è in democrazia il concorrere a perseguire gli interessi generali, quindi essa è la vita pubblica per eccellenza.
Nelle democrazie moderne la comunità sociale tende a identificarsi con lo Stato tramite la partecipazione alla vita pubblica, sicché la dimensione comunitaria assume un ruolo determinante: la progressiva rimozione delle disuguaglianze e delle ingiustizie che escludono dalla «vita politica, economica e sociale del Paese» è volta a permettere il superamento della contrapposizione tra Stato – ente generale volto a curare gli interessi pubblici – e «società civile», portatrice di interessi particolari, privati.
Il neoliberalismo, sulla scorta del liberalismo classico, ottocentesco, insiste invece sulla separazione tra la sfera politica e quella economica, quindi sulla contrapposizione tra Stato e società civile. Va da sé che la società civile non è composta da gruppi e individui privati omogenei, quindi questa – in una società frazionata in classi – rappresenta per struttura i grandi interessi economici.
Le stesse organizzazioni no profit, a dispetto della narrazione mediatica, sono parte delle società civile che per finanziamento diretto o per influenza indiretta, sono tendenzialmente espressione ideologica delle forze economiche e degli interessi materiali che alcuni centri privati di interesse portano.
«…i regimi neoliberali, la Banca Mondiale e le fondazioni occidentali… coopta[no] e usa[no] le ONG per sottrarre allo Stato nazionale le funzioni di protezione e servizi sociali tese a compensare le vittime degli effetti delle corporazioni multinazionali […] Mentre dall’alto i regimi neoliberali devasta[no] le popolazioni inondando i rispettivi paesi con importazioni a basso prezzo estraendo il pagamento del debito estero, abolendo la legislazione lavorativa …e creando una massa crescente di operai a basso salario o disoccupati, le ONG [sono] finanziate per provvedere a progetti di “auto-aiuto”, di “educazione popolare” e di “qualificazione lavorativa” tese ad assorbire temporaneamente gruppi di bisognosi, a cooptare i leader locali per sottrarli alla lotta contro il sistema. L’antistatalismo è stato il libretto ideologico di transito da una politica di classe a una politica di “sviluppo comunitario”» [J. Petras, 1997]
Lo sviluppo del cosiddetto «terzo settore», che con l’ordine mercatista neoliberale si pone come sussidiario allo Stato, corrisponde di fatto alla riduzione del perimetro dello Stato, e, segnatamente, dello Stato sociale.
Stato sociale previsto dalle costituzioni democratiche moderne in quanto ritenuto funzionale a rendere effettiva la democrazia. Poiché lo Stato sociale può essere visto come un reddito indiretto che tempera le disuguaglianze sociali e protegge i ceti meno abbienti, va da sè che al riparo della cosmesi ideologica, le forze economiche che incarnano di fatto tanto la «società civile» quanto il «terzo settore », accrescono i profitti a scapito della classe lavoratrice e, di converso, accrescono la propria influenza politica nel momento in cui sempre meno lavoratori non vedono ostacolata la propria partecipazione alla vita pubblica per motivi socioeconomici.
Quindi, all’impoverimento generale ed alla sempre più inaccettabile ingiustizia sociale, corrisponde strutturalmente un aumento dell’influenza economica dei privati, che direttamente – tramite attività di lobby – o indirettamente – tramite gruppi di pressione ideologica, come spesso si configurano le più influenti associazioni no profit – portano i loro interessi particolari nelle istituzioni. È, pertanto, evidente che questi sviluppi sono assolutamente regressivi e contrari all’orientamento teleologicamente imposto alle istituzioni dalla Costituzione.
Tratteggiato rapidamente questo scenario, non ci stupisce che il principale organo di garanzia costituzionale previsto dalla Carta «si apra alla società civile»: si prende atto che i centri di interesse privato non solo agiscono al di fuori da qualsiasi cornice legalitario-costituzionale, grazie alla costruzione eurounionista che ha imposto riforme di struttura neo-liberale agli Stati aderenti (in Italia manifestamente «contra constitutionem») ma avocano altresì a sè l’influenza diretta sull’unica istituzione che potrebbe porre rimedio allo scempio della democrazia costituzionale: la Corte Costituzionale.
In breve, i cosiddetti «amici della Corte» a cui la Consulta «si aprirà» si riveleranno essere nient’altro che le lobby (gruppi di pressione che perseguono interessi particolari), che sono per definizione «nemici» degli interessi generali.
«… Le Ong fomentano un nuovo tipo di dipendenza e di colonialismo economico e culturale. I progetti sono disegnati, o almeno approvati, sulla base dei lineamenti e delle priorità dei centri imperiali e delle loro istituzioni. Le valutazioni vengono fatte da queste e per queste. I nuovi vicerè supervisionano e assicurano la conformità degli obiettivi, dei valori e dell’ideologia dei donatori così come l’uso appropriato dei fondi. Lì dove ci sono i “risultati”, questi sono fortemente dipendenti dal continuo appoggio esterno, senza il quale fallirebbero…» [J. Petras, Progetti di solidarietà o “neoliberalismo dal basso”? Le pesanti ambiguità dell’azione delle Organizzazioni Non Governative]
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24-2-2020 di Bazaar