Cosa è il neoliberismo? Perché è sentire comune averne una percezione negativa? Se da una parte ci sono echi di protesta contro un concetto fumoso come «neoliberismo», dall’altra ci sono personaggi pubblici che non fanno altro che vantarsi di essere «liberali», se non proprio «liberisti».
D’altronde, chi potrebbe essere mai contro la «libertà»? Neanche i tiranni dei regimi più autoritari si ponevano come oppressori o come limitatori, conculcatori, sottrattori della «libertà».
Bene: poiché siamo tutti per la «libertà» (soprattutto la nostra, e soprattutto a parole) e nessuno conosce la storia del pensiero economico e politico – coscientemente o meno – viviamo nella dissonanza cognitiva. Tutti siamo contro il neoliberismo ma tutti siamo liberali.
I più raffinati si dichiarano liberali (politicamente) ma non liberisti (a livello di pensiero economico), e lo fanno sorvolando sul fatto che il liberalismo politico si fonda sul liberismo economico.
È comune sentir chiamare le democrazie occidentali «democrazie liberali», nonostante le democrazie occidentali moderne – dal secondo dopoguerra – siano state pensate per superare lo Stato liberale, ottocentesco, e per edificare lo Stato sociale in modo che gli ordinamenti venissero così configurati come «democrazie sociali». «Sociali», non «liberali», come sottolineava il più grande costituzionalista italiano del Novecento, Costantino Mortati.
I maggiori Paesi occidentali, sulla scorta delle tragedie belliche comunemente imputate al liberismo e al capitalismo sfrenato che portarono alla crisi del ‘29 e alle sue conseguenze politiche, convennero sulla necessità di mettere un freno alle «libertà» del mercato, e di violare i tabù liberali dello «Stato minimo» con la promozione dello Stato interventista di matrice keynesiana e del «welfare state»: «il pubblico» – e il conseguente interesse generale – veniva quindi ad assumere una preminenza sul «privato». La «proprietà privata» dei mezzi di produzione non era quindi più sacralizzata come nella cultura politica ed istituzionale liberale, ma veniva in tutto il mondo osservata nell’ottica della «finalità sociale»: una ovvia conseguenza di tutto ciò fu il ricorso massiccio alle nazionalizzazioni dei grandi complessi produttivi e delle aziende strategiche.
E questo avvenne anche in Paesi che si stavano emancipando dal colonialismo, come nel Cile dei primi anni ‘70.
Salvador Allende, prima di morire in seguito al golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973, aveva promosso un programma chiamato «La via cilena al socialismo» in cui si proponevano imponenti nazionalizzazioni e l’edificazione di un importante Stato sociale.
I servizi segreti statunitensi, espressione delle grandi multinazionali americane, ordirono il colpo di Stato che iniziò la violenta marcia mondiale della restaurazione liberale chiamata «neoliberismo». Il grande capitale non era più disposto a rinunciare ai suoi profitti e alla relativa influenza sulle istituzioni: la violenza politica caratterizzò quanto meno tutta la prima fase rivoluzionaria, ma la violenza economica – ovvero la sofferenza sociale causata dalle riforme economiche di matrice liberista – non è mai scemata, nonostante i grandi quotidiani celebrassero fino ai giorni nostri la «democrazia cilena»… questa sì, «liberale».
I liberisti della scuola di Chicago consigliarono la giunta militare cilena per quanto riguardava le «riforme strutturali» da intraprendere, e – in pratica – le dettarono la costituzione del 1980.
Il modello cileno fu poi esportato in tutto il mondo; certo, come fece notare Margaret Thatcher alla famosa icona del neoliberismo – ed entusiasta sostenitore di Pinochet – Friedrich August von Hayek, per i paesi come il Regno Unito i metodi cileni non erano adatti. Ma le «riforme strutturali» neoliberali andavano fatte: privatizzazioni, compressione di salari e Stato sociale con – se ci fosse bisogno di specificarlo – relativa esplosione dell’ingiustizia sociale. Così fece anche Reagan negli Stati Uniti.
Col neoliberismo il reddito prodotto andava fondamentalmente ad arricchire ulteriormente i già ricchi, lasciando sempre più strati sociali in povertà – falcidiando la classe media, le piccole e medie imprese e i ceti che esercitano le libere professioni. E questo – dal Cile – è progressivamente successo in tutto il mondo, oriente compreso.
Le democrazie sociali per eccellenza, quelle del continente europeo, furono costrette a smantellare lentamente lo Stato sociale e i diritti dei lavoratori già dalla fine degli anni ‘70, segnatamente nel ‘79, con l’introduzione di quell’accordo di cambio propedeutico alla moneta unica chiamato SME.
L’economista ultra-liberista – e premio Nobel – Robert Mundell è poi chiaro nel dar senso alla realizzazione della moneta unica affermando che «l’euro è il Reagan europeo». Ovvero l’euro è stato imposto per costringere le democrazie sociali a far le riforme neoliberali.
Così sappiamo il senso delle «riforme strutturali» che vengono imposte dall’Unione Europea al ritmo di minacce di aperture di procedure di infrazione e «spread»: gli Stati nazionali europei devono fare le medesime riforme cilene imposte ai tempi di Pinochet ma, parafrasando la Thatcher, «in modo europeo» (ovvero senza violenza politica).
E quali sono queste «riforme strutturali» che propugnano i «neoliberisti»? Che cosa è il «neoliberismo» se non le riforme stesse con il loro implicito scopo?
In sintesi:
– obbligare le nazioni al liberoscambismo, alla libera circolazione dei capitali, e i popoli a subire emigrazione ed immigrazione;
– imporre la deregolamentazione finanziaria;
– imporre accordi di cambio fissi [v. euro];
– imporre la precarizzazione del lavoro, lo smantellamento delle sue tutele e l’aumento della disoccupazione;
– imporre il taglio della copertura pubblica gratuita alla cura della salute aumentando progressivamente le contribuzione al Servizio Sanitario Nazionale [v. ticket] e spingendo la spesa delle famiglie verso il settore privato;
– imporre lo smantellamento del sistema previdenziale pubblico a favore delle assicurazioni private;
– imporre la privatizzazione dei grandi complessi industriali del Paese e dei monopoli naturali.
La ristrutturazione socioeconomica che comporta queste «riforme» si materializza in una colossale redistribuzione del reddito in senso antidemocratico, ovvero si concretizza con un impoverimento generale, la distruzione della «classe media», e l’osceno arricchimento di una ridicola minoranza.
Questo è il neoliberalismo.
E cosa comporti lo si è visto in Grecia, ancora sotto shock, lo si vede in Catalogna, lo si vede coi Gilet Gialli in Francia… e lo si vede in Cile, in cui la coscienza tra disagio sociale e neoliberismo è diffusa: il popolo cileno in queste settimane è sceso in piazza, manifesta, protesta e l’esercito – come un’eco della giunta militare del generale Pinochet – reprime la rivolta nelle strade.
«Il neoliberismo è nato in Cile e morirà qui», si legge in un cartello di un manifestante.
Sarà questa il futuro dell’Italia e dei paesi a cui l’Unione Europea impone le «riforme strutturali» neoliberiste?
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Neoliberismo: il Cile come orizzonte sociale
Cosa è il neoliberismo? Perché è sentire comune averne una percezione negativa? Se da una parte ci sono echi di protesta contro un concetto fumoso come «neoliberismo», dall’altra ci sono personaggi pubblici che non fanno altro che vantarsi di essere «liberali», se non proprio «liberisti».
D’altronde, chi potrebbe essere mai contro la «libertà»? Neanche i tiranni dei regimi più autoritari si ponevano come oppressori o come limitatori, conculcatori, sottrattori della «libertà».
Bene: poiché siamo tutti per la «libertà» (soprattutto la nostra, e soprattutto a parole) e nessuno conosce la storia del pensiero economico e politico – coscientemente o meno – viviamo nella dissonanza cognitiva. Tutti siamo contro il neoliberismo ma tutti siamo liberali.
I più raffinati si dichiarano liberali (politicamente) ma non liberisti (a livello di pensiero economico), e lo fanno sorvolando sul fatto che il liberalismo politico si fonda sul liberismo economico.
È comune sentir chiamare le democrazie occidentali «democrazie liberali», nonostante le democrazie occidentali moderne – dal secondo dopoguerra – siano state pensate per superare lo Stato liberale, ottocentesco, e per edificare lo Stato sociale in modo che gli ordinamenti venissero così configurati come «democrazie sociali». «Sociali», non «liberali», come sottolineava il più grande costituzionalista italiano del Novecento, Costantino Mortati.
I maggiori Paesi occidentali, sulla scorta delle tragedie belliche comunemente imputate al liberismo e al capitalismo sfrenato che portarono alla crisi del ‘29 e alle sue conseguenze politiche, convennero sulla necessità di mettere un freno alle «libertà» del mercato, e di violare i tabù liberali dello «Stato minimo» con la promozione dello Stato interventista di matrice keynesiana e del «welfare state»: «il pubblico» – e il conseguente interesse generale – veniva quindi ad assumere una preminenza sul «privato». La «proprietà privata» dei mezzi di produzione non era quindi più sacralizzata come nella cultura politica ed istituzionale liberale, ma veniva in tutto il mondo osservata nell’ottica della «finalità sociale»: una ovvia conseguenza di tutto ciò fu il ricorso massiccio alle nazionalizzazioni dei grandi complessi produttivi e delle aziende strategiche.
E questo avvenne anche in Paesi che si stavano emancipando dal colonialismo, come nel Cile dei primi anni ‘70.
Salvador Allende, prima di morire in seguito al golpe di Pinochet dell’11 settembre 1973, aveva promosso un programma chiamato «La via cilena al socialismo» in cui si proponevano imponenti nazionalizzazioni e l’edificazione di un importante Stato sociale.
I servizi segreti statunitensi, espressione delle grandi multinazionali americane, ordirono il colpo di Stato che iniziò la violenta marcia mondiale della restaurazione liberale chiamata «neoliberismo». Il grande capitale non era più disposto a rinunciare ai suoi profitti e alla relativa influenza sulle istituzioni: la violenza politica caratterizzò quanto meno tutta la prima fase rivoluzionaria, ma la violenza economica – ovvero la sofferenza sociale causata dalle riforme economiche di matrice liberista – non è mai scemata, nonostante i grandi quotidiani celebrassero fino ai giorni nostri la «democrazia cilena»… questa sì, «liberale».
I liberisti della scuola di Chicago consigliarono la giunta militare cilena per quanto riguardava le «riforme strutturali» da intraprendere, e – in pratica – le dettarono la costituzione del 1980.
Il modello cileno fu poi esportato in tutto il mondo; certo, come fece notare Margaret Thatcher alla famosa icona del neoliberismo – ed entusiasta sostenitore di Pinochet – Friedrich August von Hayek, per i paesi come il Regno Unito i metodi cileni non erano adatti. Ma le «riforme strutturali» neoliberali andavano fatte: privatizzazioni, compressione di salari e Stato sociale con – se ci fosse bisogno di specificarlo – relativa esplosione dell’ingiustizia sociale. Così fece anche Reagan negli Stati Uniti.
Col neoliberismo il reddito prodotto andava fondamentalmente ad arricchire ulteriormente i già ricchi, lasciando sempre più strati sociali in povertà – falcidiando la classe media, le piccole e medie imprese e i ceti che esercitano le libere professioni. E questo – dal Cile – è progressivamente successo in tutto il mondo, oriente compreso.
Le democrazie sociali per eccellenza, quelle del continente europeo, furono costrette a smantellare lentamente lo Stato sociale e i diritti dei lavoratori già dalla fine degli anni ‘70, segnatamente nel ‘79, con l’introduzione di quell’accordo di cambio propedeutico alla moneta unica chiamato SME.
L’economista ultra-liberista – e premio Nobel – Robert Mundell è poi chiaro nel dar senso alla realizzazione della moneta unica affermando che «l’euro è il Reagan europeo». Ovvero l’euro è stato imposto per costringere le democrazie sociali a far le riforme neoliberali.
Così sappiamo il senso delle «riforme strutturali» che vengono imposte dall’Unione Europea al ritmo di minacce di aperture di procedure di infrazione e «spread»: gli Stati nazionali europei devono fare le medesime riforme cilene imposte ai tempi di Pinochet ma, parafrasando la Thatcher, «in modo europeo» (ovvero senza violenza politica).
E quali sono queste «riforme strutturali» che propugnano i «neoliberisti»? Che cosa è il «neoliberismo» se non le riforme stesse con il loro implicito scopo?
In sintesi:
– obbligare le nazioni al liberoscambismo, alla libera circolazione dei capitali, e i popoli a subire emigrazione ed immigrazione;
– imporre la deregolamentazione finanziaria;
– imporre accordi di cambio fissi [v. euro];
– imporre la precarizzazione del lavoro, lo smantellamento delle sue tutele e l’aumento della disoccupazione;
– imporre il taglio della copertura pubblica gratuita alla cura della salute aumentando progressivamente le contribuzione al Servizio Sanitario Nazionale [v. ticket] e spingendo la spesa delle famiglie verso il settore privato;
– imporre lo smantellamento del sistema previdenziale pubblico a favore delle assicurazioni private;
– imporre la privatizzazione dei grandi complessi industriali del Paese e dei monopoli naturali.
La ristrutturazione socioeconomica che comporta queste «riforme» si materializza in una colossale redistribuzione del reddito in senso antidemocratico, ovvero si concretizza con un impoverimento generale, la distruzione della «classe media», e l’osceno arricchimento di una ridicola minoranza.
Questo è il neoliberalismo.
E cosa comporti lo si è visto in Grecia, ancora sotto shock, lo si vede in Catalogna, lo si vede coi Gilet Gialli in Francia… e lo si vede in Cile, in cui la coscienza tra disagio sociale e neoliberismo è diffusa: il popolo cileno in queste settimane è sceso in piazza, manifesta, protesta e l’esercito – come un’eco della giunta militare del generale Pinochet – reprime la rivolta nelle strade.
«Il neoliberismo è nato in Cile e morirà qui», si legge in un cartello di un manifestante.
Sarà questa il futuro dell’Italia e dei paesi a cui l’Unione Europea impone le «riforme strutturali» neoliberiste?
04/11/2019 di Bazaar
(Per approfondimenti: https://orizzonte48.blogspot.com/2019/10/il-destino-dellitalia-10-sanita.html)