Il tema dell’ambientalismo è ormai da tempo sovraesposto e detta l’agenda mediatica. E lo fa in modo volgare e grossolano, ai limiti della decenza morale – se non proprio ai limiti della legalità – usando testimonial minorenni come Greta Thunberg. Ma la lista di chi si è pubblicamente esposto a supporto dell’ecologismo è lunga e vanta numerosi nomi famosi e influenti.
Ora. Facciamo qualche riflessione che vada al di là della banale constatazione dell’ipocrisia degli attori che impongono questa agenda mediatica, che vada oltre alle considerazioni sulla scientificità o meno delle asserzioni di chi propaganda l’allarmismo di massa con la narrazione catastrofista, ma che dia invece per assodato – come paradigma scientifico-culturale volto allo studio dei fenomeni sociali – quello che una volta veniva chiamato «materialismo storico». Ossia quell’insieme di teorie che spiegano come le traiettorie storico-politiche siano influenzate in modo determinante dalle necessità immediate di produzione e di riproduzione delle persone umane; ovvero quella prassi analitica che evidenzia come l’economia dei gruppi sociali e la loro demografia spiegano con la miglior approssimazione le dinamiche della dialettica sociopolitica.
Bene. Poiché nessuno ama l’inquinamento, e poiché l’accesso alle tecnologie che limitano il degrado paesaggistico e la dispersione di sostanze nocive nell’ambiente è vincolato al reddito, è evidente che si pone un problema di politica economica prima che di qualsiasi dogmatico “scientismo catastrofista”.
In breve, si è già rilevato negli ultimi decenni che il miglior modo per non inquinare è essere ricchi (v. Beckerman, 1992).
Chi è che desidera essere povero e vivere in un ambiente insalubre ed esteticamente mortificante? A parte forse qualche disadattato, possiamo dir nessuno.
Si potrebbe arrivare alla ragionevole conclusione che la questione ambientale sia interclassista e produca – come vuol far credere la propaganda globalista – solidarietà sociale, internazionale e finanche intergenerazionale. Secondo la vulgata mercatista dei globalisti, a sfida globale – oggi impersonata nel catastrofismo climatico – è necessario fornire una risposta globale; e, quindi, un nuovo ordine internazionale dovrà e potrà nascere… come si deduce dall’esperimento europeista del mercato e della moneta unici, o no? Non si vedono le nazioni eurounite strette e affratellate in un unico governo europeo? No? Ma che strano…
Ovviamente abbiamo a che fare con banali volgarità intellettuali spacciate globalmente a reti unificate nei paesi appartenenti all’area d’influenza atlantica perché il globalismo – come diceva Rosa Luxemburg a proposito dell’europeismo – «è un aborto dell’imperialismo» (1911).
Se il messaggio irenico della globalizzazione è la candida veste degli indicibili interessi politico-economici del grande capitale che si ripara sotto l’ombrello NATO, l’ecologismo è la pudica veste con cui gli oligopoli energetico-finanziari impongono la loro agenda demografica.
La macchina impersonale del capitalismo liberalizzato crea delle élite che si preoccupano esclusivamente di efficientare questo complesso sistema di produzione e riproduzione che è il sistema economico e demografico moderno. Non c’è altro dietro all’ecologismo, alla lotta ai cambiamenti climatici e alla salvezza dei panda: c’è solo il perfezionamento ingegneristico di questa macchina intercontinentale per lo sfruttamento dell’energia vitale e della creatività umana. Ovvero per lo sfruttamento del lavoro.
Poiché il capitalismo liberale crea strutturalmente diseguaglianza tra classi, conflittualità – sociale ed internazionale, altro che l’interclassismo o il pacifismo sbandierati! – ed edifica una società profondamente ingiusta, la preoccupazione delle élite che questo sistema produce non può che essere rivolta ad una paranoica e ossessiva esigenza di controllo. Controllo che, in una società in cui la tecnica della divisione del lavoro forgia ogni campo della collaborazione umana, non può che essere totalitario: globale ed universale.
La pressione sociale e demografica di folle povere ed impoverite che scappano dalla miseria va gestita, controllata.
Dal punto di vista dell’autoriproduzione del sistema sarebbe quindi irrazionale rendere più ricche le masse lavoratrici in modo che non abbiano l’esigenza di rivoltarsi contro l’ordine costituito, che non si riproducano in modo sconsiderato per sfuggire all’alta mortalità infantile e alla frustrazione sociale, che non sporchino con la loro richiesta di consumare beni di scarsa qualità prodotti con tecnologie inquinanti. L’interesse fondamentale del sistema è la sua stessa sopravvivenza, e lo sfruttamento è il cuore del suo funzionamento: si possono sfruttare efficientemente solo masse di poveri. L’assenza di paura dell’indigenza – al netto del controllo mediatico-digitale – può produrre una forte coscienza sociale e politica, e questa può portare a rivoluzionare l’organizzazione sociale segnando la fine del sistema stesso. Il Ventesimo secolo è stato in questo paradigmatico.
Le élite possono essere considerate gli “anticorpi” del sistema stesso: e queste sono prodotte affinché le condizioni economico-demografiche siano ottimali per la stabilità sociale e l’imperturbabilità del processo produttivo-riproduttivo.
Come si sta cercando di far capire, il soggetto – il capitalismo neoliberale – è impersonale, è stato storicamente istituito, ed ora – in una specie di inversione feticistica – ha ridotto le persone ad oggetti impersonali, esclusivamente impegnate a produrre, a consumare il meno possibile e ad autoeliminarsi quando non più necessarie al funzionamento ottimale del meccanismo.
Se il modo di produzione nel capitalismo liberale è quello liberista, il modo di riproduzione è quello malthusiano (v. Thomas Robert Malthus, 1766 –1834): il malthusianesimo si occupa di dare una veste ideologica alla riduzione dei consumi (v. “decrescita felice”) e all’eliminazione scientifica degli individui ritenuti “superflui”.
Quando si parla di ambientalismo o di ecologismo non si parla, quindi, di tutela paesaggistica e cura della salubrità dell’ambiente, ma si parla di mero controllo demografico di genere malthusiano.
Poiché tutti hanno subito le esternalità negative legate all’industrializzazione, ora, a quei pochi che hanno almeno goduto del consumo delle relative merci, viene chiesto di rinunciare al correlato benessere, alle relative sana longevità e libera riproduzione. In nome dell’ambiente, del clima e dell’inquinamento.
L’uso del moralismo e del senso di colpa allo scopo di far sopportare modelli di vita pauperistici è stato storicamente prassi ierocratica; certo è che l’adorazione neopagana di Gaia – della Terra, di Madre natura – si distingue per la sua volgarità, per le scemenze scientiste che ne adornano la propaganda, e per il cretinismo positivista degli scienziati che si prestano alle relative operazioni mediatiche.
Nonostante la distribuzione di ricchezza e la giustizia sociale siano il miglior modo per salvaguardare i paesaggi, la flora, la fauna e la salubrità degli ambienti, le politiche proposte dalle élite sono invece ostinatamente neoliberali, con tutto l’impoverimento, la distruzione e la repressione che si portano dietro. È tra l’altro noto che l’industria bellica consustanziale all’imperialismo neoliberale, oltre che a portare distruzione in grandi porzioni dell’umanità, è una dei maggiori responsabili dell’inquinamento mondiale.
Del clima e dei panda, ai guardiani del capitalismo liberale – ovvero alle «élite» – non può importar di meno: gli aristocratici e gli oligopolisti, che in piena rivoluzione neoliberale hanno creato le grandi associazioni “verdi”, erano preoccupati della pressione demografica. Cosa è più efficace di legare ad ogni abitante del pianeta Terra un’emissione procapite di CO2?
La logica sottostante è semplice: se si vuole ridurre l’anidride carbonica basta ridurre il numero degli esseri umani – considerati delle bestie da soma – e, quelli che servono per produrre, devono consumare il meno possibile, riprodursi solo se “aventi diritto”, ovvero se tendenzialmente ricchi, e vivere – come vaticinava l’elitario banchiere Tommaso Padoa Schioppa – senza «quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità. Cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare…». In sintesi prevedeva lo smantellamento – privatizzazione – del welfare, dello Stato sociale: l’oppressione di classe – ossia la povertà – è ecologica.
Ma anche la diffusione dell’aborto, delle malattie sessualmente trasmissibili, dell’omosessualità, delle famiglie “atipiche”… è l’istituzionalizzazione di una società rispettosa dell’ambiente.
Più diretto il banchiere francese Jacques Attali (1981): «…la libertà fondamentale è il suicidio; di conseguenza il diritto al suicidio diretto o indiretto è quindi un valore assoluto in questo tipo di società. In una società capitalistica vedranno la luce e saranno pratica corrente le macchine per uccidere, delle protesi che permetteranno di eliminare la vita quando sarà del tutto insopportabile o economicamente troppo costosa. Penso quindi che l’eutanasia, come valore di libertà o di mercato, sarà una delle regole della società futura». E aggiunge (1999): «Alcune delle democrazie più avanzate sceglieranno di fare della morte un atto di libertà e di legalizzare l’eutanasia. Altre fisseranno dei limiti precisi alle proprie spese per la sanità, calcolando anche una spesa media, un “diritto di vita” che ognuno potrà utilizzare a suo piacimento fino ad esaurimento. Si creerà, allora, un mercato dei “diritti di vita” supplementari, in cui ognuno potrà vendere il proprio, in caso sia affetto da una malattia incurabile o sia troppo povero. Si arriverà, un giorno, persino a vendere dei “ticket di morte”, che daranno il diritto di scegliere tra i vari tipi di fine possibili: eutanasia a scelta, morte a sorpresa nel sonno, morte sontuosa o tragica, suicidio su commissione, ecc. La propria morte come la morte di un altro».
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Oppressione ecologica e controllo demografico
Il tema dell’ambientalismo è ormai da tempo sovraesposto e detta l’agenda mediatica. E lo fa in modo volgare e grossolano, ai limiti della decenza morale – se non proprio ai limiti della legalità – usando testimonial minorenni come Greta Thunberg. Ma la lista di chi si è pubblicamente esposto a supporto dell’ecologismo è lunga e vanta numerosi nomi famosi e influenti.
Ora. Facciamo qualche riflessione che vada al di là della banale constatazione dell’ipocrisia degli attori che impongono questa agenda mediatica, che vada oltre alle considerazioni sulla scientificità o meno delle asserzioni di chi propaganda l’allarmismo di massa con la narrazione catastrofista, ma che dia invece per assodato – come paradigma scientifico-culturale volto allo studio dei fenomeni sociali – quello che una volta veniva chiamato «materialismo storico». Ossia quell’insieme di teorie che spiegano come le traiettorie storico-politiche siano influenzate in modo determinante dalle necessità immediate di produzione e di riproduzione delle persone umane; ovvero quella prassi analitica che evidenzia come l’economia dei gruppi sociali e la loro demografia spiegano con la miglior approssimazione le dinamiche della dialettica sociopolitica.
Bene. Poiché nessuno ama l’inquinamento, e poiché l’accesso alle tecnologie che limitano il degrado paesaggistico e la dispersione di sostanze nocive nell’ambiente è vincolato al reddito, è evidente che si pone un problema di politica economica prima che di qualsiasi dogmatico “scientismo catastrofista”.
In breve, si è già rilevato negli ultimi decenni che il miglior modo per non inquinare è essere ricchi (v. Beckerman, 1992).
Chi è che desidera essere povero e vivere in un ambiente insalubre ed esteticamente mortificante? A parte forse qualche disadattato, possiamo dir nessuno.
Si potrebbe arrivare alla ragionevole conclusione che la questione ambientale sia interclassista e produca – come vuol far credere la propaganda globalista – solidarietà sociale, internazionale e finanche intergenerazionale. Secondo la vulgata mercatista dei globalisti, a sfida globale – oggi impersonata nel catastrofismo climatico – è necessario fornire una risposta globale; e, quindi, un nuovo ordine internazionale dovrà e potrà nascere… come si deduce dall’esperimento europeista del mercato e della moneta unici, o no? Non si vedono le nazioni eurounite strette e affratellate in un unico governo europeo? No? Ma che strano…
Ovviamente abbiamo a che fare con banali volgarità intellettuali spacciate globalmente a reti unificate nei paesi appartenenti all’area d’influenza atlantica perché il globalismo – come diceva Rosa Luxemburg a proposito dell’europeismo – «è un aborto dell’imperialismo» (1911).
Se il messaggio irenico della globalizzazione è la candida veste degli indicibili interessi politico-economici del grande capitale che si ripara sotto l’ombrello NATO, l’ecologismo è la pudica veste con cui gli oligopoli energetico-finanziari impongono la loro agenda demografica.
La macchina impersonale del capitalismo liberalizzato crea delle élite che si preoccupano esclusivamente di efficientare questo complesso sistema di produzione e riproduzione che è il sistema economico e demografico moderno. Non c’è altro dietro all’ecologismo, alla lotta ai cambiamenti climatici e alla salvezza dei panda: c’è solo il perfezionamento ingegneristico di questa macchina intercontinentale per lo sfruttamento dell’energia vitale e della creatività umana. Ovvero per lo sfruttamento del lavoro.
Poiché il capitalismo liberale crea strutturalmente diseguaglianza tra classi, conflittualità – sociale ed internazionale, altro che l’interclassismo o il pacifismo sbandierati! – ed edifica una società profondamente ingiusta, la preoccupazione delle élite che questo sistema produce non può che essere rivolta ad una paranoica e ossessiva esigenza di controllo. Controllo che, in una società in cui la tecnica della divisione del lavoro forgia ogni campo della collaborazione umana, non può che essere totalitario: globale ed universale.
La pressione sociale e demografica di folle povere ed impoverite che scappano dalla miseria va gestita, controllata.
Dal punto di vista dell’autoriproduzione del sistema sarebbe quindi irrazionale rendere più ricche le masse lavoratrici in modo che non abbiano l’esigenza di rivoltarsi contro l’ordine costituito, che non si riproducano in modo sconsiderato per sfuggire all’alta mortalità infantile e alla frustrazione sociale, che non sporchino con la loro richiesta di consumare beni di scarsa qualità prodotti con tecnologie inquinanti. L’interesse fondamentale del sistema è la sua stessa sopravvivenza, e lo sfruttamento è il cuore del suo funzionamento: si possono sfruttare efficientemente solo masse di poveri. L’assenza di paura dell’indigenza – al netto del controllo mediatico-digitale – può produrre una forte coscienza sociale e politica, e questa può portare a rivoluzionare l’organizzazione sociale segnando la fine del sistema stesso. Il Ventesimo secolo è stato in questo paradigmatico.
Le élite possono essere considerate gli “anticorpi” del sistema stesso: e queste sono prodotte affinché le condizioni economico-demografiche siano ottimali per la stabilità sociale e l’imperturbabilità del processo produttivo-riproduttivo.
Come si sta cercando di far capire, il soggetto – il capitalismo neoliberale – è impersonale, è stato storicamente istituito, ed ora – in una specie di inversione feticistica – ha ridotto le persone ad oggetti impersonali, esclusivamente impegnate a produrre, a consumare il meno possibile e ad autoeliminarsi quando non più necessarie al funzionamento ottimale del meccanismo.
Se il modo di produzione nel capitalismo liberale è quello liberista, il modo di riproduzione è quello malthusiano (v. Thomas Robert Malthus, 1766 –1834): il malthusianesimo si occupa di dare una veste ideologica alla riduzione dei consumi (v. “decrescita felice”) e all’eliminazione scientifica degli individui ritenuti “superflui”.
Quando si parla di ambientalismo o di ecologismo non si parla, quindi, di tutela paesaggistica e cura della salubrità dell’ambiente, ma si parla di mero controllo demografico di genere malthusiano.
Poiché tutti hanno subito le esternalità negative legate all’industrializzazione, ora, a quei pochi che hanno almeno goduto del consumo delle relative merci, viene chiesto di rinunciare al correlato benessere, alle relative sana longevità e libera riproduzione. In nome dell’ambiente, del clima e dell’inquinamento.
L’uso del moralismo e del senso di colpa allo scopo di far sopportare modelli di vita pauperistici è stato storicamente prassi ierocratica; certo è che l’adorazione neopagana di Gaia – della Terra, di Madre natura – si distingue per la sua volgarità, per le scemenze scientiste che ne adornano la propaganda, e per il cretinismo positivista degli scienziati che si prestano alle relative operazioni mediatiche.
Nonostante la distribuzione di ricchezza e la giustizia sociale siano il miglior modo per salvaguardare i paesaggi, la flora, la fauna e la salubrità degli ambienti, le politiche proposte dalle élite sono invece ostinatamente neoliberali, con tutto l’impoverimento, la distruzione e la repressione che si portano dietro. È tra l’altro noto che l’industria bellica consustanziale all’imperialismo neoliberale, oltre che a portare distruzione in grandi porzioni dell’umanità, è una dei maggiori responsabili dell’inquinamento mondiale.
Del clima e dei panda, ai guardiani del capitalismo liberale – ovvero alle «élite» – non può importar di meno: gli aristocratici e gli oligopolisti, che in piena rivoluzione neoliberale hanno creato le grandi associazioni “verdi”, erano preoccupati della pressione demografica. Cosa è più efficace di legare ad ogni abitante del pianeta Terra un’emissione procapite di CO2?
La logica sottostante è semplice: se si vuole ridurre l’anidride carbonica basta ridurre il numero degli esseri umani – considerati delle bestie da soma – e, quelli che servono per produrre, devono consumare il meno possibile, riprodursi solo se “aventi diritto”, ovvero se tendenzialmente ricchi, e vivere – come vaticinava l’elitario banchiere Tommaso Padoa Schioppa – senza «quel diaframma di protezioni che nel corso del Ventesimo secolo hanno progressivamente allontanato l’individuo dal contatto diretto con la durezza del vivere, con i rovesci della fortuna, con la sanzione o il premio ai suoi difetti o qualità. Cento, cinquanta anni fa il lavoro era necessità; la buona salute, dono del Signore; la cura del vecchio, atto di pietà familiare…». In sintesi prevedeva lo smantellamento – privatizzazione – del welfare, dello Stato sociale: l’oppressione di classe – ossia la povertà – è ecologica.
Ma anche la diffusione dell’aborto, delle malattie sessualmente trasmissibili, dell’omosessualità, delle famiglie “atipiche”… è l’istituzionalizzazione di una società rispettosa dell’ambiente.
Più diretto il banchiere francese Jacques Attali (1981): «…la libertà fondamentale è il suicidio; di conseguenza il diritto al suicidio diretto o indiretto è quindi un valore assoluto in questo tipo di società. In una società capitalistica vedranno la luce e saranno pratica corrente le macchine per uccidere, delle protesi che permetteranno di eliminare la vita quando sarà del tutto insopportabile o economicamente troppo costosa. Penso quindi che l’eutanasia, come valore di libertà o di mercato, sarà una delle regole della società futura». E aggiunge (1999): «Alcune delle democrazie più avanzate sceglieranno di fare della morte un atto di libertà e di legalizzare l’eutanasia. Altre fisseranno dei limiti precisi alle proprie spese per la sanità, calcolando anche una spesa media, un “diritto di vita” che ognuno potrà utilizzare a suo piacimento fino ad esaurimento. Si creerà, allora, un mercato dei “diritti di vita” supplementari, in cui ognuno potrà vendere il proprio, in caso sia affetto da una malattia incurabile o sia troppo povero. Si arriverà, un giorno, persino a vendere dei “ticket di morte”, che daranno il diritto di scegliere tra i vari tipi di fine possibili: eutanasia a scelta, morte a sorpresa nel sonno, morte sontuosa o tragica, suicidio su commissione, ecc. La propria morte come la morte di un altro».
Questo è “Greta”.
19/10/2019 di Bazaar
(Per approfondimenti: https://orizzonte48.blogspot.com/2018/06/il-mercato-tra-elitismo-malthusiano-e.html ; https://orizzonte48.blogspot.com/2018/06/prassi-teoretica-dellelitismo.html)