Il caso dell’acciaieria ILVA, al netto dei motivi intorno ai quali i media costruiscono la cronaca, è un’eminente questione di carattere economico, politico e sociale che influenzerà il futuro del nostro Paese; questa è anche una tipica situazione in cui l’ideologia neoliberale ed euronionista tende a non permettere una chiara presa di coscienza dell’interesse nazionale e a impedire quella lucidità necessaria per coordinare un’azione pronta, decisa e coesa volta a salvaguardare un fondamentale settore strategico, con tutte le conseguenze economiche e sociali che ne derivano.
Dimostreremo che, stando al nostro modello costituzionale, la decisione politica dovrebbe essere orientata con convinzione verso una qualche forma di nazionalizzazione.
Procediamo per passi: sicuramente andrà valutata la convenienza nel far proseguire l’attività dell’ex-ILVA – la più grande acciaieria d’Europa; su Orizzonte48 viene presentato uno studio volto a certificare la fattibilità di una sua nazionalizzazione e ne valuta i problemi di ordine legale, legale-fiscale ed economico-industriale.
Vediamoli sinteticamente insieme: innanzitutto viene verificata l’esistenza o meno di normativa di derivazione eurounionista che possa vietare l’acquisizione da parte dello Stato italiano e che si voglia porre – grazie a qualche contorsione ideologica… – al di sopra delle norme costituzionali italiane. Quindi ci si interroga sulle risorse finanziarie della Repubblica italiana disponibili per un’eventuale operazione di nazionalizzazione; riflessione che nasce dall’esigenza di valutare lo scenario in cui la UE dovesse avanzare obiezioni in merito all’eccessivo disavanzo pubblico. Fatte queste considerazioni, viene valutato l’impatto sul sistema produttivo nazionale della scelta di garantire la continuità dell’attività metallurgica a Taranto.
Innanzitutto, a livello legale, si constata che l’art.43 Cost., di per sé, non occupandosi di settori quali il siderurgico, e curandosi soltanto dei regimi di monopolio, non impone il trasferimento in mano pubblica dell’acciaieria in questione. È l’art.42 Cost. che soccorre il decisore politico in favore dell’«esproprio» – «salvo indennizzo» – per «motivi d’interesse generale».
La Costituzione, quindi, per motivi di preminente interesse pubblico permette alla legge di trasferire allo Stato la proprietà di beni economici. Il principio per cui la politica economica debba essere indirizzata a «fini sociali» è espressa invece nell’art. 41 Cost.: in quest’articolo si promuove l’iniziativa economica privata – non lasciandola sviluppare autonomamente come propagandato dalla dottrina liberale – ma coordinandola in modo da tutelare l’attività lavorativa dei lavoratori e degli stessi imprenditori dai fallimenti del mercato.
(Il cosiddetto «liberismo» aveva già creato abbastanza sciagure in termini di crescita economica, occupazione, e di giustizia sociale all’epoca dell’Assemblea Costituente perché i costituenti fossero ben preoccupati dei gravi problemi di stabilità sociale e di politica internazionale che il liberalismo economico comporta).
A favore dell’intervento pubblico ci sono anche le preoccupazioni sulla situazione ambientale e sulla salute pubblica dell’area dell’ex-ILVA; queste sono un’altra eminente questione di interesse generale secondo l’art.32 Cost. che – se considerato congiuntamente al fattore occupazionale tutelato dalla fondazione lavoristica stessa della Carta secondo in base agli artt. 1 e 4 Cost. – fanno dell’operazione di nazionalizzazione dell’impianto produttivo di Taranto un’azione, non solo legittima, ma assolutamente auspicabile.
E come possono impattare le norme eurounioniste?
L’art. 345 TFUE esprime il principio di neutralità dei trattati rispetto ai regimi di proprietà degli Stati membri e non impedisce quindi operazioni di nazionalizzazione (par. 30).
Inoltre le norme fondamentali del diritto europeo non possono che essere subordinate alle norme costituzionali fondamentali come gli artt. 41, 42 e 43 Cost.
Nel caso quindi si pervenisse ad una nazionalizzazione ben fatta, economicamente sostenibile e con importanti ripercussioni positive sul sistema produttivo, tale azione non configurerebbe come un aiuto di Stato, ma come un fondamentale investimento.
Nel momento in cui l’operazione generasse redditività come investimento produttivo, anche gran parte delle obiezioni di natura legale-fiscale verrebbero a cadere.
La valutazione economico-industriale diventa così dirimente, ovvero è necessario capire se una nazionalizzazione, o quanto meno un intervento guidato dallo Stato, per fonti e condizioni di finanziamento, in funzione della tipologia dei soggetti economici eventualmente coinvolti, sia o meno in grado di realizzare un investimento capace di garantire all’ex-ILVA un solido posizionamento sul mercato cosicché la sua attività risulti essere finanziariamente ed operativamente sostenibile.
Ricordiamo che l’industria pubblica è fondamentale per un paese dal momento in cui questa permette dei benefici a livello sistemico che il “libero mercato” non può garantire. Stando col prof. De Cecco le privatizzazioni degli anni Novanta: «…hanno cambiato la faccia dell’industria italiana senza fare un graffio al deficit pubblico. Se si voleva distruggere l’industria italiana ci sono riusciti. […] Questo risultato non è stato voluto, ma è sicuro che sia stato assolutamente deleterio. Gli studi della Banca d’Italia dimostrano che al tempo l’industria di Stato faceva ricerca per tutto il sistema economico italiano. Dopo le privatizzazioni, chi ha preso il posto dell’Iri, ad esempio, non l’ha voluta fare.
Siamo rimasti senza un altro pilastro importante della politica industriale, mentre si continuano a fare solenni discorsi sull’istruzione, sulla ricerca o la cultura. In questi anni è stato distrutto tutto. Su questo non ci piove.
Le prime privatizzazioni sono state fatte per imposizione della City di Londra. Siamo stati ricattati. Credo che era molto difficile per le autorità politiche riuscire a sottrarsi, dati i precari assetti politici che anche allora ci affliggevano.»
Egidio Egidi, storico collaboratore di Mattei all’ENI, spiegava come le industrie pubbliche dovessero ottenere piccoli margini di profitto o, in alcuni casi, il pareggio, in quanto: «Gli obblighi sociali di fornire occupazione, fare investimenti in aree depresse, e mantenere operative le industrie strategiche, costituivano anche finalità importanti». E bisogna anche ricordare che questi «obblighi» sono di origine costituzionale.
Quindi bisogna considerare che l’industria dell’acciaio dimostra gravi problemi di sovrapproduzione globale e in gran parte del mondo questa necessita di un urgente sostegno statale: e ciò vale in primis per un paese manifatturiero come l’Italia.
È da sottolineare che la vocazione manifatturiera dell’Italia nasce anche da una fondamentale questione geografica: sul territorio del nostro Paese ci sono scarse quantità di materie prime e, per poterle importare, è necessario che vengano esportati manufatti.
Il settore automobilistico, e quello metalmeccanico in genere, sono quindi settori assolutamente strategici per la nostra economia, e il settore siderurgico ne è proprio la colonna portante.
Va da sé che è fortemente auspicabile – se non proprio esiziale – permettere all’ex-ILVA di stare sul mercato poiché la sua operatività ha una tale ricaduta sistemica da condizionare il futuro sviluppo dell’industria nazionale; una partecipazione pubblica, con la relativa possibilità di coordinare differenti soggetti privati, sarebbe una strategia assolutamente funzionale ad una politica economica volta a perseguire l’interesse nazionale.
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Politiche industriali: il caso ILVA.
Il caso dell’acciaieria ILVA, al netto dei motivi intorno ai quali i media costruiscono la cronaca, è un’eminente questione di carattere economico, politico e sociale che influenzerà il futuro del nostro Paese; questa è anche una tipica situazione in cui l’ideologia neoliberale ed euronionista tende a non permettere una chiara presa di coscienza dell’interesse nazionale e a impedire quella lucidità necessaria per coordinare un’azione pronta, decisa e coesa volta a salvaguardare un fondamentale settore strategico, con tutte le conseguenze economiche e sociali che ne derivano.
Dimostreremo che, stando al nostro modello costituzionale, la decisione politica dovrebbe essere orientata con convinzione verso una qualche forma di nazionalizzazione.
Procediamo per passi: sicuramente andrà valutata la convenienza nel far proseguire l’attività dell’ex-ILVA – la più grande acciaieria d’Europa; su Orizzonte48 viene presentato uno studio volto a certificare la fattibilità di una sua nazionalizzazione e ne valuta i problemi di ordine legale, legale-fiscale ed economico-industriale.
Vediamoli sinteticamente insieme: innanzitutto viene verificata l’esistenza o meno di normativa di derivazione eurounionista che possa vietare l’acquisizione da parte dello Stato italiano e che si voglia porre – grazie a qualche contorsione ideologica… – al di sopra delle norme costituzionali italiane. Quindi ci si interroga sulle risorse finanziarie della Repubblica italiana disponibili per un’eventuale operazione di nazionalizzazione; riflessione che nasce dall’esigenza di valutare lo scenario in cui la UE dovesse avanzare obiezioni in merito all’eccessivo disavanzo pubblico. Fatte queste considerazioni, viene valutato l’impatto sul sistema produttivo nazionale della scelta di garantire la continuità dell’attività metallurgica a Taranto.
Innanzitutto, a livello legale, si constata che l’art.43 Cost., di per sé, non occupandosi di settori quali il siderurgico, e curandosi soltanto dei regimi di monopolio, non impone il trasferimento in mano pubblica dell’acciaieria in questione. È l’art.42 Cost. che soccorre il decisore politico in favore dell’«esproprio» – «salvo indennizzo» – per «motivi d’interesse generale».
La Costituzione, quindi, per motivi di preminente interesse pubblico permette alla legge di trasferire allo Stato la proprietà di beni economici. Il principio per cui la politica economica debba essere indirizzata a «fini sociali» è espressa invece nell’art. 41 Cost.: in quest’articolo si promuove l’iniziativa economica privata – non lasciandola sviluppare autonomamente come propagandato dalla dottrina liberale – ma coordinandola in modo da tutelare l’attività lavorativa dei lavoratori e degli stessi imprenditori dai fallimenti del mercato.
(Il cosiddetto «liberismo» aveva già creato abbastanza sciagure in termini di crescita economica, occupazione, e di giustizia sociale all’epoca dell’Assemblea Costituente perché i costituenti fossero ben preoccupati dei gravi problemi di stabilità sociale e di politica internazionale che il liberalismo economico comporta).
A favore dell’intervento pubblico ci sono anche le preoccupazioni sulla situazione ambientale e sulla salute pubblica dell’area dell’ex-ILVA; queste sono un’altra eminente questione di interesse generale secondo l’art.32 Cost. che – se considerato congiuntamente al fattore occupazionale tutelato dalla fondazione lavoristica stessa della Carta secondo in base agli artt. 1 e 4 Cost. – fanno dell’operazione di nazionalizzazione dell’impianto produttivo di Taranto un’azione, non solo legittima, ma assolutamente auspicabile.
E come possono impattare le norme eurounioniste?
L’art. 345 TFUE esprime il principio di neutralità dei trattati rispetto ai regimi di proprietà degli Stati membri e non impedisce quindi operazioni di nazionalizzazione (par. 30).
Inoltre le norme fondamentali del diritto europeo non possono che essere subordinate alle norme costituzionali fondamentali come gli artt. 41, 42 e 43 Cost.
Nel caso quindi si pervenisse ad una nazionalizzazione ben fatta, economicamente sostenibile e con importanti ripercussioni positive sul sistema produttivo, tale azione non configurerebbe come un aiuto di Stato, ma come un fondamentale investimento.
Nel momento in cui l’operazione generasse redditività come investimento produttivo, anche gran parte delle obiezioni di natura legale-fiscale verrebbero a cadere.
La valutazione economico-industriale diventa così dirimente, ovvero è necessario capire se una nazionalizzazione, o quanto meno un intervento guidato dallo Stato, per fonti e condizioni di finanziamento, in funzione della tipologia dei soggetti economici eventualmente coinvolti, sia o meno in grado di realizzare un investimento capace di garantire all’ex-ILVA un solido posizionamento sul mercato cosicché la sua attività risulti essere finanziariamente ed operativamente sostenibile.
Ricordiamo che l’industria pubblica è fondamentale per un paese dal momento in cui questa permette dei benefici a livello sistemico che il “libero mercato” non può garantire. Stando col prof. De Cecco le privatizzazioni degli anni Novanta: «…hanno cambiato la faccia dell’industria italiana senza fare un graffio al deficit pubblico. Se si voleva distruggere l’industria italiana ci sono riusciti. […] Questo risultato non è stato voluto, ma è sicuro che sia stato assolutamente deleterio. Gli studi della Banca d’Italia dimostrano che al tempo l’industria di Stato faceva ricerca per tutto il sistema economico italiano. Dopo le privatizzazioni, chi ha preso il posto dell’Iri, ad esempio, non l’ha voluta fare.
Siamo rimasti senza un altro pilastro importante della politica industriale, mentre si continuano a fare solenni discorsi sull’istruzione, sulla ricerca o la cultura. In questi anni è stato distrutto tutto. Su questo non ci piove.
Le prime privatizzazioni sono state fatte per imposizione della City di Londra. Siamo stati ricattati. Credo che era molto difficile per le autorità politiche riuscire a sottrarsi, dati i precari assetti politici che anche allora ci affliggevano.»
Egidio Egidi, storico collaboratore di Mattei all’ENI, spiegava come le industrie pubbliche dovessero ottenere piccoli margini di profitto o, in alcuni casi, il pareggio, in quanto: «Gli obblighi sociali di fornire occupazione, fare investimenti in aree depresse, e mantenere operative le industrie strategiche, costituivano anche finalità importanti». E bisogna anche ricordare che questi «obblighi» sono di origine costituzionale.
Quindi bisogna considerare che l’industria dell’acciaio dimostra gravi problemi di sovrapproduzione globale e in gran parte del mondo questa necessita di un urgente sostegno statale: e ciò vale in primis per un paese manifatturiero come l’Italia.
È da sottolineare che la vocazione manifatturiera dell’Italia nasce anche da una fondamentale questione geografica: sul territorio del nostro Paese ci sono scarse quantità di materie prime e, per poterle importare, è necessario che vengano esportati manufatti.
Il settore automobilistico, e quello metalmeccanico in genere, sono quindi settori assolutamente strategici per la nostra economia, e il settore siderurgico ne è proprio la colonna portante.
Va da sé che è fortemente auspicabile – se non proprio esiziale – permettere all’ex-ILVA di stare sul mercato poiché la sua operatività ha una tale ricaduta sistemica da condizionare il futuro sviluppo dell’industria nazionale; una partecipazione pubblica, con la relativa possibilità di coordinare differenti soggetti privati, sarebbe una strategia assolutamente funzionale ad una politica economica volta a perseguire l’interesse nazionale.
16/11/2019 di Bazaar
(Fonte: https://orizzonte48.blogspot.com/2019/11/sole-e-acciaio-1-radiografia-di-una.html ; https://orizzonte48.blogspot.com/2019/11/sole-e-acciaio-2-industria-italianaun.html)