Un ispirato Francesco Guccini, negli anni ‘70, cantava “Radici”:
La casa sul confine dei ricordi […] e tu ricerchi là le tue radici se vuoi capire l’anima che hai… Quanti tempi e quante vite sono scivolate via da te […] tu che hai visto nascere e morire gli antenati miei […] ed io, l’ultimo, ti chiedo se conosci in me qualche segno, qualche traccia di ogni vita. E te li senti dentro quei legami, i riti antichi e i miti del passato […] ma non comprendi più il significato… le tue radici danno la saggezza e proprio questa è forse la risposta.
Memorabile: una casa di campagna e una famiglia contadina, immortalata seria, integra e piena di vitale personalità sulla copertina del disco. La forza delle tradizioni e il suo frutto, l’identità: l’identità che decodifica il mondo della vita e fornisce un senso a tutto.
Il tema dell’identità è fondamentale, anzi, a livello ontologico, proprio fondativo: soprattutto in ambito sociale.
L’identità è coscienza, ovvero è la massima espressione dell’essere umano, ossia dell’essere sociale: la coscienza di sé è un tratto distintivo dell’Uomo. Non a caso le massime realizzazioni politiche della modernità sono state raggiunte proprio diffondendo identità nazionale e di classe: la coscienza nazionale ha portato alla sovranità nazionale, la coscienza di classe ha portato nelle nazioni sovrane la democrazia sociale.
La consapevolezza, l’identità che passa dal riconoscimento reciproco, ovvero la consapevolezza che passa dal confronto con l’altro, è il fondamento degli ordinamenti che pongono la propria preoccupazione principale, e la correlata tutela, nella dignità dell’Uomo. Ovvero vi è un legame stretto tra politica democratica e coscienza. Ovvero tra coscienza, democrazia sociale e dignità della persona umana.
Le persone che si identificano nel vivere una vita non dignitosa, non degna di essere vissuta, diventano consapevoli di essere una classe sociale, ovvero di rappresentare una condizione sociale che acquista un significato non nelle personali, astrattamente individuali, scelte di vita, ma nel vincolo tra le le proprie scelte, le proprie condizioni e prospettive, e i rapporti sociali di subalternità che si ereditano per nascita.
Ovvero l’identità di classe si acquisisce nel momento in cui si riconosce, tramite il confronto reciproco, che le proprie scelte morali e le proprie opportunità sono influenzate in modo determinante dalla condizione sociale che si acquisisce per nascita, che non si sceglie: e poiché nella modernità capitalistica ciò che condiziona maggiormente i rapporti sociali sono i rapporti economici, il riconoscersi come “poveri” rispetto alla distribuzione della ricchezza prodotta, e di come questo stato di povertà influisca sulle proprie scelte morali e sulla propria dignità personale, crea un’identità fondamentale: un’identità fondativa dell’ontologia dell’essere sociale moderno: l’identità di classe. Ossia la coscienza di classe.
Ovvero l’identità sociale più importante della modernità, la coscienza più importante dell’essere sociale, è quella di classe, che, negli ultimi due secoli, ha permesso di far coincidere la dignità della vita umana con la democrazia sociale.
E chi non nasce povero?
Semplice: quella coscienza, quell’identità di classe, ovvero quella consapevolezza di appartenere a una classe che gli permette di vivere dignitosamente, la acquisisce immediatamente confrontando lo status delle persone che può frequentare in via esclusiva e lo stato sociale di chi incontra fuori dalla propria cerchia abituale. In breve, i ricchi sono pochi e si riconoscono immediatamente come classe, i poveri sono tanti e vedono il proprio status come una normalità, come naturale. Nel momento stesso in cui il povero, il sociopoliticamente subalterno, diventa consapevole del fatto che i rapporti sociali non sono «naturali», ma sono politicamente istituiti, acquisisce coscienza di classe: ovvero la sua identità si radica socialmente.
Va da sé che chi gode del privilegio di appartenere per nascita o adozione alla classe dominante difficilmente può vedere in modo positivo il riconoscimento dei subalterni in classe, e quindi indulgere su quel processo di identificazione che rende solidali in una comunione di destini e d’intenti chi subisce l’ordine costituito. L’identità di classe degli oppressi produce solidarietà, ovvero quel sentimento e quei legami che muovono politicamente verso la socializzazione del potere economico e politico: ovvero verso la democrazia sociale.
È interesse della classe dominante, ovvero della classe che impone oggi la propria egemonia grazie al controllo delle organizzazioni sovranazionali e dei media di massa, frammentare e sradicare l’identità dei subalterni, dei soggiogati, degli oppressi: l’identità dei poveri.
La frammentazione e l’atomizzazione dell’identità dei poveri viene ottenuta propagandando il relativismo morale, i modelli destrutturanti e omologanti della società dell’immagine, viene ottenuta fomentando conflitti tra sezioni della stessa classe oppressa – lavoratori privati contro statali, giovani contro vecchi, istruiti contro non scolarizzati ecc. – tramite l’immigrazione di massa, tramite le cosiddette teorie gender, o, oggi, tramite il distanziamento sociale.
Lo sradicamento è invece prodotto tramite l’imperialismo culturale, tramite l’emigrazione o tramite l’immigrazione: eradicare l’individuo dalla sua cultura nazionale, locale, dai suoi usi e costumi, dalla sua religione, è una prassi sociopolitica indispensabile per asservire totalmente i dominati.
Un concetto fondamentale dell’identità sociale radicato nella cultura atavica di una comunità, nella sua tradizione, è il concetto di sacro.
Uno sradicamento non è totale se non cancella la sacralità dagli usi, dalla memoria e dai costumi: di converso non si può annichilire l’identità di un popolo e di una classe se non si dissacrano le istituzioni fondamentali intorno a cui una classe, un popolo, una nazione si riuniscono, ovvero intorno alle quali questi trovano la propria solidale unità. La propria coscienza storica*.
Trova quindi un senso sinistro questo accanimento verso l’istituzione sacra più importante del mondo cristiano, del mondo in cui la coscienza nazionale e di classe ha dato alla luce
le democrazie sociali: il Natale. Una festa già sfregiata, alienata, dalla mercificazione consumistica e dalla nauseante omologazione hollywoodiana, ora oggetto della maligna derisione da parte di improbabili guitti della propaganda mediatica, corifei a sostegno delle misure più liberticide mai conosciute dall’uomo moderno. Nessun totalitarismo ha mai soppresso o profanato le istituzioni sacre degli oppressi: questo è storicamente avvenuto solo come conseguenza delle guerre di annientamento, delle debellatio. Ovvero della totale distruzione e sottomissione di altri popoli.
Con la narrazione pandemica, ovvero con la propaganda globale del terrore epidemico, è stato possibile offendere la pulsione affettiva che spinge ad accorrere al capezzale dei propri cari, impedire il sacramento dell’estrema unzione, e – fatto che non ha precedenti storici – sono stati negati la degna sepoltura e il commiato funebre ai morti. È stata tolta la dignità a ciò che significa la vita stessa: la morte.
Non ci stupiamo quindi che si dissacri l’istituzione che celebra la vita per eccellenza, ovvero che celebra la «nascita» in tutto il mondo europeo: il Natale.
Mentre viene profanato il sacro con funzioni religiose che dovrebbero essere celebrate «due ore prima», mentre ectoplasmi ridicoli, dai media di massa, affermano scemenze su come celebrare riti e vivere le ricorrenze, i vincoli famigliari vengono dissolti nell’acido solforico del distanziamento sociale che corrode le anime terrorizzate degli oppressi.
Nonni che vedono nei nipoti veicoli di mortale contagio, parenti che ritengono che sanzioni e malattie siano più importanti dei legami di sangue, amici mascherati che “si danno il gomito”: ecco che la massa impaurita dei soggiogati affronta l’Avvento con l’anima disposta affinché non avvenga. Un presepe di figure mascherate non è un presepio. Così il rito natalizio senza l’incontro della famiglia non è il rito natalizio. E le istituzioni sacre come il Natale e la famiglia – ricordiamolo – sono l’identità di un popolo.
Chi perde per pusillanimità il senso del sacro è destinato a perdere la libertà. Ovvero l’anima.
Si noti che lo sradicamento e la disintegrazione dell’identità nella fenomenologia qui accennata sono già propri, strutturali, del fondamentalismo dell’economia di mercato, ovvero del liberismo, del liberoscambismo, della relativa libera circolazione di capitali e lavoratori, e della deregolamentazione finanziaria che informano la globalizzazione (di cui la UE è una delle colonne principali).
*Si noti che lo sradicamento e la disintegrazione dell’identità nella fenomenologia qui accennata sono già propri, strutturali, del fondamentalismo dell’economia di mercato, ovvero del liberismo, del liberoscambismo, della relativa libera circolazione di capitali e lavoratori, e della deregolamentazione finanziaria che informano la globalizzazione (di cui la UE è una delle colonne principali).
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Radici, distanziamento sociale e il Natale dissacrato
Un ispirato Francesco Guccini, negli anni ‘70, cantava “Radici”:
Memorabile: una casa di campagna e una famiglia contadina, immortalata seria, integra e piena di vitale personalità sulla copertina del disco. La forza delle tradizioni e il suo frutto, l’identità: l’identità che decodifica il mondo della vita e fornisce un senso a tutto.
Il tema dell’identità è fondamentale, anzi, a livello ontologico, proprio fondativo: soprattutto in ambito sociale.
L’identità è coscienza, ovvero è la massima espressione dell’essere umano, ossia dell’essere sociale: la coscienza di sé è un tratto distintivo dell’Uomo. Non a caso le massime realizzazioni politiche della modernità sono state raggiunte proprio diffondendo identità nazionale e di classe: la coscienza nazionale ha portato alla sovranità nazionale, la coscienza di classe ha portato nelle nazioni sovrane la democrazia sociale.
La consapevolezza, l’identità che passa dal riconoscimento reciproco, ovvero la consapevolezza che passa dal confronto con l’altro, è il fondamento degli ordinamenti che pongono la propria preoccupazione principale, e la correlata tutela, nella dignità dell’Uomo. Ovvero vi è un legame stretto tra politica democratica e coscienza. Ovvero tra coscienza, democrazia sociale e dignità della persona umana.
Le persone che si identificano nel vivere una vita non dignitosa, non degna di essere vissuta, diventano consapevoli di essere una classe sociale, ovvero di rappresentare una condizione sociale che acquista un significato non nelle personali, astrattamente individuali, scelte di vita, ma nel vincolo tra le le proprie scelte, le proprie condizioni e prospettive, e i rapporti sociali di subalternità che si ereditano per nascita.
Ovvero l’identità di classe si acquisisce nel momento in cui si riconosce, tramite il confronto reciproco, che le proprie scelte morali e le proprie opportunità sono influenzate in modo determinante dalla condizione sociale che si acquisisce per nascita, che non si sceglie: e poiché nella modernità capitalistica ciò che condiziona maggiormente i rapporti sociali sono i rapporti economici, il riconoscersi come “poveri” rispetto alla distribuzione della ricchezza prodotta, e di come questo stato di povertà influisca sulle proprie scelte morali e sulla propria dignità personale, crea un’identità fondamentale: un’identità fondativa dell’ontologia dell’essere sociale moderno: l’identità di classe. Ossia la coscienza di classe.
Ovvero l’identità sociale più importante della modernità, la coscienza più importante dell’essere sociale, è quella di classe, che, negli ultimi due secoli, ha permesso di far coincidere la dignità della vita umana con la democrazia sociale.
E chi non nasce povero?
Semplice: quella coscienza, quell’identità di classe, ovvero quella consapevolezza di appartenere a una classe che gli permette di vivere dignitosamente, la acquisisce immediatamente confrontando lo status delle persone che può frequentare in via esclusiva e lo stato sociale di chi incontra fuori dalla propria cerchia abituale. In breve, i ricchi sono pochi e si riconoscono immediatamente come classe, i poveri sono tanti e vedono il proprio status come una normalità, come naturale. Nel momento stesso in cui il povero, il sociopoliticamente subalterno, diventa consapevole del fatto che i rapporti sociali non sono «naturali», ma sono politicamente istituiti, acquisisce coscienza di classe: ovvero la sua identità si radica socialmente.
Va da sé che chi gode del privilegio di appartenere per nascita o adozione alla classe dominante difficilmente può vedere in modo positivo il riconoscimento dei subalterni in classe, e quindi indulgere su quel processo di identificazione che rende solidali in una comunione di destini e d’intenti chi subisce l’ordine costituito. L’identità di classe degli oppressi produce solidarietà, ovvero quel sentimento e quei legami che muovono politicamente verso la socializzazione del potere economico e politico: ovvero verso la democrazia sociale.
È interesse della classe dominante, ovvero della classe che impone oggi la propria egemonia grazie al controllo delle organizzazioni sovranazionali e dei media di massa, frammentare e sradicare l’identità dei subalterni, dei soggiogati, degli oppressi: l’identità dei poveri.
La frammentazione e l’atomizzazione dell’identità dei poveri viene ottenuta propagandando il relativismo morale, i modelli destrutturanti e omologanti della società dell’immagine, viene ottenuta fomentando conflitti tra sezioni della stessa classe oppressa – lavoratori privati contro statali, giovani contro vecchi, istruiti contro non scolarizzati ecc. – tramite l’immigrazione di massa, tramite le cosiddette teorie gender, o, oggi, tramite il distanziamento sociale.
Lo sradicamento è invece prodotto tramite l’imperialismo culturale, tramite l’emigrazione o tramite l’immigrazione: eradicare l’individuo dalla sua cultura nazionale, locale, dai suoi usi e costumi, dalla sua religione, è una prassi sociopolitica indispensabile per asservire totalmente i dominati.
Un concetto fondamentale dell’identità sociale radicato nella cultura atavica di una comunità, nella sua tradizione, è il concetto di sacro.
Uno sradicamento non è totale se non cancella la sacralità dagli usi, dalla memoria e dai costumi: di converso non si può annichilire l’identità di un popolo e di una classe se non si dissacrano le istituzioni fondamentali intorno a cui una classe, un popolo, una nazione si riuniscono, ovvero intorno alle quali questi trovano la propria solidale unità. La propria coscienza storica*.
Trova quindi un senso sinistro questo accanimento verso l’istituzione sacra più importante del mondo cristiano, del mondo in cui la coscienza nazionale e di classe ha dato alla luce
le democrazie sociali: il Natale. Una festa già sfregiata, alienata, dalla mercificazione consumistica e dalla nauseante omologazione hollywoodiana, ora oggetto della maligna derisione da parte di improbabili guitti della propaganda mediatica, corifei a sostegno delle misure più liberticide mai conosciute dall’uomo moderno. Nessun totalitarismo ha mai soppresso o profanato le istituzioni sacre degli oppressi: questo è storicamente avvenuto solo come conseguenza delle guerre di annientamento, delle debellatio. Ovvero della totale distruzione e sottomissione di altri popoli.
Con la narrazione pandemica, ovvero con la propaganda globale del terrore epidemico, è stato possibile offendere la pulsione affettiva che spinge ad accorrere al capezzale dei propri cari, impedire il sacramento dell’estrema unzione, e – fatto che non ha precedenti storici – sono stati negati la degna sepoltura e il commiato funebre ai morti. È stata tolta la dignità a ciò che significa la vita stessa: la morte.
Non ci stupiamo quindi che si dissacri l’istituzione che celebra la vita per eccellenza, ovvero che celebra la «nascita» in tutto il mondo europeo: il Natale.
Mentre viene profanato il sacro con funzioni religiose che dovrebbero essere celebrate «due ore prima», mentre ectoplasmi ridicoli, dai media di massa, affermano scemenze su come celebrare riti e vivere le ricorrenze, i vincoli famigliari vengono dissolti nell’acido solforico del distanziamento sociale che corrode le anime terrorizzate degli oppressi.
Nonni che vedono nei nipoti veicoli di mortale contagio, parenti che ritengono che sanzioni e malattie siano più importanti dei legami di sangue, amici mascherati che “si danno il gomito”: ecco che la massa impaurita dei soggiogati affronta l’Avvento con l’anima disposta affinché non avvenga. Un presepe di figure mascherate non è un presepio. Così il rito natalizio senza l’incontro della famiglia non è il rito natalizio. E le istituzioni sacre come il Natale e la famiglia – ricordiamolo – sono l’identità di un popolo.
Chi perde per pusillanimità il senso del sacro è destinato a perdere la libertà. Ovvero l’anima.
Si noti che lo sradicamento e la disintegrazione dell’identità nella fenomenologia qui accennata sono già propri, strutturali, del fondamentalismo dell’economia di mercato, ovvero del liberismo, del liberoscambismo, della relativa libera circolazione di capitali e lavoratori, e della deregolamentazione finanziaria che informano la globalizzazione (di cui la UE è una delle colonne principali).
*Si noti che lo sradicamento e la disintegrazione dell’identità nella fenomenologia qui accennata sono già propri, strutturali, del fondamentalismo dell’economia di mercato, ovvero del liberismo, del liberoscambismo, della relativa libera circolazione di capitali e lavoratori, e della deregolamentazione finanziaria che informano la globalizzazione (di cui la UE è una delle colonne principali).