L’impasse perenne, che si risolve solo quando la decisione più sanguinosa a livello sociale viene presa, continua come da tradizione nelle istituzioni europee.
Gli inglesi – oramai in fuga con la Brexit dalla macchina trita diritti e libertà chiamata Unione Europea – non scontano dalle colonne dei loro più autorevoli giornali alcuna critica al nuovo presidente dell’Unione Europea Ursula Von Der Leyen, che, di fronte alla più grave crisi economica dei paesi della UE, non sa che pesci pigliare: 27 Stati legati uno all’altro con 27 esigenze diverse, di cui 19 completamente incatenati dal sistema di cambi fissi chiamato euro.
In pratica abbiamo legati insieme decine di naufraghi in mare durante una tempesta e i più grandi e grossi di questi cercano di non annegare spingendo sott’acqua quelli più debolix.
Non è un caso che sono proprio Francia e Germania a proporre come realizzare l’ennesimo sistema per finanziare gli stati in difficoltà, il «Recovery Fund».
Ovviamente l’unica scelta politica che non comporterebbe una carneficina sociale per gli Stati che malauguratamente dovessero trovarsi a corto di liquidità sarebbe quella di monetizzare il debito pubblico; politica monetaria espressamente vietata alla BCE dai Trattati: e quindi carneficina sia.
D‘altronde la UE è stata concepita così, e la Von Der Leyen può ideare ben poche soluzioni per il disastro epocale rappresentato dal lockdown dovuto al Covid19, e quindi i due pesi massimi dell’Unione Europea non possono che essere loro a dettare la linea – per definizione nei loro esclusivi interessi. Interessi che collidono se non quando si tratta di accordarsi per spennare l’Italia e far venire il sangue amaro agli italiani.
Certo è che questo accordo dovrà essere discusso al Consiglio Europeo, in cui la discordia regna sovrana (tanto che ad oggi non è ancora stato approvato il prossimo bilancio pluriennale).
Ma se la legge del più forte dovesse, come di regola, trionfare con buona pace delle democrazie dei paesi più deboli, ci troveremmo con un «Recovery Fund» così caratterizzato:
I fondi concessi agli Stati membri per il prossimo quadro finanziario pluriennale subiranno un aumento tramite un fondo di 500 miliardi, non finanziato dagli Stati, ma finanziati per mezzo di obbligazioni a lungo termine emesse dalla UE. Le garanzie fornite dagli Stati saranno proporzionate alla dimensione del PIL, quindi, considerando che il bilancio annuale dell’Unione Europea raccoglie e distribuisce risorse per circa 160 miliardi, per i prossimi tre anni vedremo raddoppiati i rispettivi contributi versati.
I finanziamenti saranno concessi primariamente per le misure necessarie a contrastare l’epidemia, quindi con un alto livello di discrezionalità. Il loro utilizzo dovrà, come sempre, rispettare il mantra globalista, di cui la UE è sponsor: biosicurezza, ecologismo (per la gioia dei franco-tedeschi che hanno bisogno di enormi investimenti per le rispettive industrie automobilistiche che devono abbandonare i motori a combustione) e digitalizzazione forzata.
le risorse saranno usate in modo complementare a quelle proprie degli Stati e avranno dei limiti quantitativi e temporali precisi. Notare che – a differenza di ciò che esponenti del governo hanno riferito – queste non saranno «a fondo perduto», ma saranno vincolate ad un piano di rimborso – ancora misterioso – che potrà andare ben oltre al quadro finanziario pluriennale.
Il Recovery Fund si aggiungerà alle misure prese a livello nazionale e ai pacchetti già concordati a livello di Eurogruppo: ovvero MES, BEI e SURE. Quindi, con la stessa logica e spirito con cui si «aiutano» gli Stati in difficoltà, gli Stati membri dovranno porre in essere riforme strutturali «ambiziose»: ovvero austerità e privatizzazioni.
Il resto è secondario.
Cosa notiamo?
I 500 miliardi sono una somma ben inferiore dei 1500 miliardi di euro di cui inizialmente la Commissione Europea parlava per bocca di Gentiloni.
Se apparentemente queste sono somme erogate dal bilancio UE e possono apparire come «a fondo perduto» [grant, in inglese] la dura realtà è invece che queste vanno rimborsate, e quindi l’operazione risulta un prestito, con la solita richiesta di spremere ulteriormente i contribuenti italiani per fornire ulteriori risorse proprie alla UE: alla fine tutto ciò che ci verrà dato dovrà essere restituito nell’asfissiante quadro giuridico eurouniosta, tra «Fiscal Compact», «programmi di stabilità e convergenza» del «semestre europeo», disciplina di bilancio e procedure di infrazione… senza dimenticare il «cofinanziamento», ovvero quel meccanismo per cui per ogni risorsa restituita ai paesi della UE sotto forma di “finanziamento europeo”, il Paese deve contribuire per il 50% con risorse proprie (pazzesco…).
Per comprendere l’impatto che potrà avere il «Recovery Fund» sulla nostra economia bisognerà comprendere quale sarà l’entità delle garanzie per i titoli emessi dalla UE, come sarà l’agenda da seguire per il rimborso, quale sarà l’effettiva cifra di cui potremo disporre e quali saranno i vincoli nell’indirizzare questi finanziamenti.
Le risorse ricevute non verrebbero contabilizzate nel debito pubblico, ma solo nel deficit: va però ricordato che neanche i titoli del fondo usato per «salvare» la Grecia furono contabilizzati… quindi questo non ci rincuora più di tanto.
Se riflettiamo poi sul fatto che alla UE versiamo normalmente a bilancio ben più di quello che riceviamo – siamo contributori netti – viene difficile immaginare grandi stravolgimenti con il nuovo meccanismo; e questo nonostante siamo stati in assoluto il paese più colpito dal covid19 (basti pensare che il lockdown da noi ha creato un tracollo di quasi il 30% della produzione industriale contro la media di poco meno del 12% della UE).
Nonostante tutto, è ben difficile che l’Italia diverrà mai beneficiaria netta.
Con tutti i vincoli che già abbiamo non sembra proprio il caso di farci commissariare per aver – se andrà bene – spiccioli che non serviranno sicuramente a risollevare le sorti del Paese.
Se non bastassero i «Trattati» a sancire il divieto di qualsiasi solidarietà fiscale, è lo spirito con cui in tutti questi anni siamo stati «trattati» a dover far rinsavire gli europeisti più accecati dall’ideologia: una nazione si fonda in primis sulla solidarietà che permette il sentimento nazionale. L’Europa non è una nazione.
Il «Recovery Fund», come il MES, come tutti i pasticci ingarbugliati e incomprensibili che nascono a livello internazionale e sovranazionale in Europa, sono figli del profondo egoismo intrinseco al capitalismo liberale che ha informato i Trattati: la vulgata degli Stati Uniti d’Europa, uniti e solidali, è stata propagandata dall’origine per gli ingenui. Eppure è da almeno il 1949 che esiste chi denuncia come il progetto eurounionista sia stato concepito nell’esclusivo interesse di pochissimi e a danno della maggioranza.
Da un pero non possono crescere mele: da un progetto nato per abbattere le sovranità popolari, e asservire i paesi più deboli, non può nascere null’altro che istituzioni volte a questo scopo.
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Recovery Fund: un sussidio a fondo perduto?
L’impasse perenne, che si risolve solo quando la decisione più sanguinosa a livello sociale viene presa, continua come da tradizione nelle istituzioni europee.
Gli inglesi – oramai in fuga con la Brexit dalla macchina trita diritti e libertà chiamata Unione Europea – non scontano dalle colonne dei loro più autorevoli giornali alcuna critica al nuovo presidente dell’Unione Europea Ursula Von Der Leyen, che, di fronte alla più grave crisi economica dei paesi della UE, non sa che pesci pigliare: 27 Stati legati uno all’altro con 27 esigenze diverse, di cui 19 completamente incatenati dal sistema di cambi fissi chiamato euro.
In pratica abbiamo legati insieme decine di naufraghi in mare durante una tempesta e i più grandi e grossi di questi cercano di non annegare spingendo sott’acqua quelli più debolix.
Non è un caso che sono proprio Francia e Germania a proporre come realizzare l’ennesimo sistema per finanziare gli stati in difficoltà, il «Recovery Fund».
Ovviamente l’unica scelta politica che non comporterebbe una carneficina sociale per gli Stati che malauguratamente dovessero trovarsi a corto di liquidità sarebbe quella di monetizzare il debito pubblico; politica monetaria espressamente vietata alla BCE dai Trattati: e quindi carneficina sia.
D‘altronde la UE è stata concepita così, e la Von Der Leyen può ideare ben poche soluzioni per il disastro epocale rappresentato dal lockdown dovuto al Covid19, e quindi i due pesi massimi dell’Unione Europea non possono che essere loro a dettare la linea – per definizione nei loro esclusivi interessi. Interessi che collidono se non quando si tratta di accordarsi per spennare l’Italia e far venire il sangue amaro agli italiani.
Certo è che questo accordo dovrà essere discusso al Consiglio Europeo, in cui la discordia regna sovrana (tanto che ad oggi non è ancora stato approvato il prossimo bilancio pluriennale).
Ma se la legge del più forte dovesse, come di regola, trionfare con buona pace delle democrazie dei paesi più deboli, ci troveremmo con un «Recovery Fund» così caratterizzato:
Il resto è secondario.
Cosa notiamo?
I 500 miliardi sono una somma ben inferiore dei 1500 miliardi di euro di cui inizialmente la Commissione Europea parlava per bocca di Gentiloni.
Se apparentemente queste sono somme erogate dal bilancio UE e possono apparire come «a fondo perduto» [grant, in inglese] la dura realtà è invece che queste vanno rimborsate, e quindi l’operazione risulta un prestito, con la solita richiesta di spremere ulteriormente i contribuenti italiani per fornire ulteriori risorse proprie alla UE: alla fine tutto ciò che ci verrà dato dovrà essere restituito nell’asfissiante quadro giuridico eurouniosta, tra «Fiscal Compact», «programmi di stabilità e convergenza» del «semestre europeo», disciplina di bilancio e procedure di infrazione… senza dimenticare il «cofinanziamento», ovvero quel meccanismo per cui per ogni risorsa restituita ai paesi della UE sotto forma di “finanziamento europeo”, il Paese deve contribuire per il 50% con risorse proprie (pazzesco…).
Per comprendere l’impatto che potrà avere il «Recovery Fund» sulla nostra economia bisognerà comprendere quale sarà l’entità delle garanzie per i titoli emessi dalla UE, come sarà l’agenda da seguire per il rimborso, quale sarà l’effettiva cifra di cui potremo disporre e quali saranno i vincoli nell’indirizzare questi finanziamenti.
Le risorse ricevute non verrebbero contabilizzate nel debito pubblico, ma solo nel deficit: va però ricordato che neanche i titoli del fondo usato per «salvare» la Grecia furono contabilizzati… quindi questo non ci rincuora più di tanto.
Se riflettiamo poi sul fatto che alla UE versiamo normalmente a bilancio ben più di quello che riceviamo – siamo contributori netti – viene difficile immaginare grandi stravolgimenti con il nuovo meccanismo; e questo nonostante siamo stati in assoluto il paese più colpito dal covid19 (basti pensare che il lockdown da noi ha creato un tracollo di quasi il 30% della produzione industriale contro la media di poco meno del 12% della UE).
Nonostante tutto, è ben difficile che l’Italia diverrà mai beneficiaria netta.
Con tutti i vincoli che già abbiamo non sembra proprio il caso di farci commissariare per aver – se andrà bene – spiccioli che non serviranno sicuramente a risollevare le sorti del Paese.
Se non bastassero i «Trattati» a sancire il divieto di qualsiasi solidarietà fiscale, è lo spirito con cui in tutti questi anni siamo stati «trattati» a dover far rinsavire gli europeisti più accecati dall’ideologia: una nazione si fonda in primis sulla solidarietà che permette il sentimento nazionale. L’Europa non è una nazione.
Il «Recovery Fund», come il MES, come tutti i pasticci ingarbugliati e incomprensibili che nascono a livello internazionale e sovranazionale in Europa, sono figli del profondo egoismo intrinseco al capitalismo liberale che ha informato i Trattati: la vulgata degli Stati Uniti d’Europa, uniti e solidali, è stata propagandata dall’origine per gli ingenui. Eppure è da almeno il 1949 che esiste chi denuncia come il progetto eurounionista sia stato concepito nell’esclusivo interesse di pochissimi e a danno della maggioranza.
Da un pero non possono crescere mele: da un progetto nato per abbattere le sovranità popolari, e asservire i paesi più deboli, non può nascere null’altro che istituzioni volte a questo scopo.
E il Recovery Fund è una di queste.