Sul tema dell’euro si sentono e si leggono in continuazione i commenti più disparati, alcuni dei quali liquidano l’analisi economica dei danni portati dalla moneta unica come fossero fandonie o “discorsi da bar”.
In realtà, il fallimento del sistema euro è stato accertato e dichiarato dai più illustri economisti mondiali, tra cui sei premi nobel per l’economia (Milton Friedman, Joseph Stigliz, Paul Krugman, Amartya Sen, Christopher Pissarrides, James Mirrless) e numerosi docenti in materie economiche italiani e stranieri.
Anche alcuni dei “padri fondatori” dell’Eurozona, come il tedesco Oskar Lafontaine o intellettuali europeisti come il francese François Haisbourg, oggi hanno riconosciuto come la scelta dell’euro sia stata un errore, e come l’unico modo di porvi rimedio è uscirne.
L’Eurozona è infatti da circa 5 anni in una profonda crisi di sistema che ha portato molti Paesi che ne fanno parte ad un arretramento del prodotto interno e dei livelli di reddito ai livelli medi di dieci anni fa, e per ora le stime reali sulla possibile ripresa sono molto pessimistiche.
Le cause della crisi, tuttavia, nell’analisi fuorviante ed antistorica data da molti commentatori su giornali e tv, sono da ricondursi ad altri problemi, principalmente al debito pubblico, che si dice essere dovuto ad una scriteriata politica scialacquona, che ha favorito nell’ultimo decennio troppa “spesa pubblica improduttiva”; alla “corruzione, evasione e poca voglia di lavorare” attribuite all’etnìa italiana in genere; al “non aver fatto le riforme strutturali” che invece la Germania ha fatto e per questo “è più brava di noi”.
Ci hanno dunque convinto che la crisi “ce la meritiamo”, per aver votato politici corrotti ed inetti, e che per salvarci dobbiamo affidarci ai “tecnici” i quali, grazie alle politiche tese al “più Europa”, ci faranno diventare bravi quanto i Tedeschi.
Con queste argomentazioni ci hanno fatto accettare misure di “austerity”, cioè tagli alla spesa pubblica (anche a servizi essenziali come sanità, istruzione, ecc.) ed aumenti della pressione fiscale, sino a renderla la più alta in Europa.
Il risultato – ampiamente prevedibile – è stato un aggravamento della crisi, con un aumento del debito pubblico e della disoccupazione; una contrazione ancora maggiore dei consumi con conseguente crollo delle piccole e medie imprese; una stagnazione del mercato in quasi ogni settore ed un generale impoverimento del Paese.
Quasi tutti ormai concordano nel riconoscere che le misure di austerity hanno fallito ed anzi hanno contribuito a peggiorare la situazione.
Ma quali sono allora le vere cause della crisi dell’Eurozona?
La crisi in realtà è scoppiata a causa di un accumulo di debito privato nei Paesi periferici, grazie al facile accesso ai prestiti da parte delle banche dei Paesi centrali, dovuto alla libera circolazione dei capitali ed ai tassi ci interesse favorevoli.
Quando, nel 2008, è arrivato lo shock economico dovuto alla crisi dei mutui subprime ed al fallimento della Lehman Brothers negli USA, le banche, subendo ingenti perdite, hanno ristretto l’accesso al credito, chiedendo alti tassi di interesse nei paesi periferici, a causa della loro cresciuta inaffidabilità per i mercati: così è aumentato lo spread.
Le banche fortemente indebitate sul punto di fallire (vedi MPS) sono state “salvate” dagli Stati, così il debito privato si è tramutato in debito pubblico, ed il suo onere è stato fatto ricadere sui cittadini attraverso l’imposizione di maggiori tasse e le politiche di austerità.
Chi ci ha guadagnato? Le banche dei Paesi core, che nonostante i prestiti eccessivi ed imprudenti hanno ripianato i loro crediti, e gli industriali degli stessi Paesi, grazie ai profitti accumulati negli anni del boom. Chi ci ha rimesso sono gli Stati periferici (accusati falsamente di essere responsabili della crisi per aver accumulato debito pubblico), e i loro cittadini, chiamati ingiustamente a ripianare le perdite.
I Paesi del centro, inoltre (Germania in primis), hanno potuto far crescere costantemente le proprie esportazioni senza che si verificasse l’effetto riequilibrante del sistema dato dal cambio flessibile, cioè l’aumento del valore della moneta del Paese in surplus.
Anche grazie a questo, le rispettive posizioni di surplus (della Germania) e di deficit (dei Paesi della periferia) si sono consolidate senza più riequilibrarsi.
L’introduzione dell’euro, dunque, ha avuto come primo effetto quello di eliminare un elemento fondamentale per il buon funzionamento dell’economia in un’area commerciale internazionale: la flessibilità del cambio.
Ma ancora oggi si tenta di far passare per fallimento dello Stato un effetto distruttivo del meccanismo del mercato.
Per coloro che hanno voluto e difendono ancora strenuamente la deregolamentazione dei mercati finanziari – ovvero la rimozione dei vincoli un tempo esistenti alla libera circolazione dei capitali, tenendola al di fuori del controllo dei governi – sarebbe deleterio ammettere che proprio il mercato “libero” conduce ad esiti socialmente nefasti. Perciò conviene loro diffondere la credenza per cui ogni problema nasce dal debito pubblico, cioè quello dovuto agli investimenti statali per finanziare la spesa pubblica, con particolare accento su quella “improduttiva” (che a detta di questi “liberisti” sarebbe la maggior parte).
E giù quindi ad elencare i vizi e il malcostume dello Stato italiano: la casta, la corruzione, l’evasione, ecc.
Ma la corruzione in Italia c’era anche negli anni ’80 e ’90 (ai tempi di Craxi, Poggiolini, Di Lorenzo, ecc.) e l’Italia era la 5° potenza industriale del mondo, cioè l’economia tirava alla grande; peraltro, il caso più rilevante di corruzione in termini di numeri, ad oggi, è quello posto in essere dalla teutonica Siemens.
E l’evasione di cui ci rimproverano ogni minuto è certamente significativa, ma va detto che le nostre tasse sono le più alte in Europa ed evadere “qualcosa” non significa evadere totalmente. E nonostante l’evasione, siamo comunque quelli che pagano più tasse (in concreto) in Europa, e dopo di noi, nella classifica europea per importo di denaro evaso, c’è subito la “virtuosa” Germania. Non è un dettaglio né un mistero, poi, che la nostra pressione fiscale ha battuto ogni record, attestandosi ad un livello tale da minare la sopravvivenza stessa delle imprese che non vogliano evadere neanche un centesimo. Sicuramente, se le tasse fossero più basse, la percentuale di evasione scenderebbe di pari passo.
Agli Italiani viene anche attribuito spesso dagli stranieri l’epiteto di “fannulloni”: credo che soltanto uno sguardo al mondo delle piccole medie imprese, sul cui lavoro si fonda in gran parte la nostra economia, basti a smentire tale accusa, tanto offensiva quanto pretestuosa ed infondata.
La menzogna del debito pubblico come causa della crisi serve quindi a giustificare “misure di rilancio dell’economia” alternative all’utilizzo di investimenti pubblici (assolutamente non compatibili con l’obiettivo primario – impostoci dalla UE – di riduzione della spesa pubblica), cioè politiche di riduzione dei salari dei lavoratori dipendenti: unico intervento possibile, in un sistema di moneta unica, per restituire “competitività” ai nostri prodotti industriali. Queste politiche vengono propugnate attraverso la progressiva erosione dei diritti dei lavoratori, tramite l’incentivazione della c.d. “flessibilità in uscita” (leggi: licenziamenti più facili), e la successiva introduzione di strumenti che aumentino la “flessibilità in entrata”, cioè la diminuzione dei costi per le nuove assunzioni da parte delle imprese, con la creazione di modelli contrattuali che eliminano l’obbligo contributivo e cronicizzano il precariato, oltre a prevedere salari molto bassi. (v. “minijob” tedeschi)
L’accettazione di tali gravissime compressioni dei diritti dei lavoratori e dell’entità dei salari, alle quali si affiancano poi interventi di allontanamento dell’età pensionabile ed eliminazione delle pensioni retributive (v. riforma Fornero), viene fatta accettare ai sindacati e ai lavoratori stessi in nome del “ce lo chiede l’Europa”, utilizzando il pretesto del fine di unità europea, che funge da “vincolo esterno” alla politiche sopra descritte, sollevando i politici che le propongono e le approvano dalla responsabilità per le conseguenze che ne deriveranno. Anche l’aumento della disoccupazione, a causa dei fallimenti continui delle PMI e delle politiche di riduzione del personale per far fronte alla crisi, accentua la corsa al ribasso dei salari.
Nell’immediato, ciò si traduce in un’apparente aumento del profitto per l’imprenditore (datore di lavoro). Ma in realtà, la diminuzione della capacità di acquisto delle famiglie dei lavoratori (dovuta al calo dei salari) produce una contrazione della domanda internasi consuma meno, perché si hanno meno soldi da spendere) e quindi un calo delle vendite nel mercato interno. Da queste politiche quindi, trae vantaggio (a lungo termine, quando le riforme entrano a regime) solo il mercato delle esportazioni, mentre il mercato interno rallenta sempre di più.
L’effetto di queste misure imposteci dall’Europa ha prodotto l’aumento dei lavoratori precari e l’impoverimento sempre maggiore degli Italiani, con una conseguente recessione dei consumi che ha portato al fallimento di altre imprese, a ulteriori licenziamenti e quindi alla creazione di nuova disoccupazione.
E oggi dunque, come potremmo uscire dalla crisi?
L’introduzione dell’euro come moneta unica, sottoposta all’esclusivo controllo della Banca Centrale Europea, ha tolto all’Italia la sovranità monetaria, cioè la possibilità di stampare moneta, iniettando denaro nel sistema economico, consentendo così di finanziare investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione, e la possibilità di lasciare che la moneta, con il cambio flessibile, “fluttui” liberamente sui mercati, svalutandosi spontaneamente di quel tanto che serve a riallinearla al rivello della nostra inflazione reale e restituendo in tal modo (senza necessità di ridurre i salari) la competitività perduta ai nostri prodotti sul mercato estero (rilanciando così le esportazioni).
Questo è il primo, fondamentale aspetto paralizzante della nostra economia: l’impossibilità di emettere e controllare la propria moneta, quindi di utilizzare misure di politica valutaria (cioè che agiscono sul valore della moneta).
Ma oltre a questo, l’adozione dell’euro ha posto ulteriori stringenti vincoli alle nostre politiche economiche.
L’adesione ai trattati UE, in particolare il trattato di Maastricht e quello di Lisbona, ha comportato l’accettazione da parte del nostro governo di sottometterci, cedendo la nostra sovranità anche sotto questo profilo, a regole e vincoli imposti e delineati da istituzioni esterne e sovranazionali, non elette (quindi antidemocratiche) e non soggette ad alcun potere di controllo o indirizzo da parte dei governi nazionali aderenti.
I più noti fra questi sono il Patto di bilancio europeo, detto “Fiscal compact”; Il Patto di Stabilità e di crescita; il Patto di stabilità interno ed il Meccanismo Europeo di Stabilità” (MES).
Il Fiscal Compact ha posto un limite invalicabile alla spesa pubblica che il nostro governo può affrontare per le esigenze del Paese: quello del pareggio del bilancio, ovvero la necessità che la spesa pubblica sia “coperta” da pari entrate nel bilancio pubblico, attraverso riscossione di imposte e tasse, vendita di beni pubblici, altre fonti di entrata.
Il PSC ci obbliga a rispettare i seguenti parametri di bilancio: un deficit pubblico non superiore al 3% del PIL e un debito pubblico al di sotto del 60% del PIL.
Da questo patto deriva quindi l’impossibilità per il nostro Paese – come per tutti gli altri membri dell’eurozona – di sforare il tetto del 3% del deficit, il che si traduce nell’impossibilità di effettuare investimenti pubblici per il rilancio dell’economia laddove la spesa destinata a coprirli superi il limite suddetto. In caso di sforamento, scatta la c.d. “procedura di infrazione”, cui l’Italia è stata sottoposta fino all’anno passato, ma non per tutti, visto che diversi Paesi europei (Francia e Germania, ad es.) hanno sforato il limite di diversi punti percentuali, e alcuni continuano a farlo, senza che venga loro applicata alcuna sanzione. All’Italia, nell’ultimo DPF è stata negata dalla UE la richiesta di sforare dello 0,1% il limite del 3% del deficit.
Il Patto di Stabilità Interno (PSI) obbliga al rispetto dei suddetti parametri anche le Pubbliche Amministrazioni. In base a detti vincoli, oggi le nostre Regioni e Comuni, anche se hanno avuto gestioni virtuose e dispongono così di “soldi in cassa” disponibili per soddisfare i bisogni delle comunità locali, non possono spenderli oltre i limiti prefissati, lasciando a volte nel degrado pubblici edifici, o scoperti servizi pubblici essenziali alla cittadinanza. Questo è il vincolo più odioso per i territori, difatti gli amministratori locali, Sindaci in testa, in più occasioni hanno protestato a gran voce chiedendone l’eliminazione.
Il MES ha sostituito il FESF e il MESF prima in vigore, ed emetterà prestiti ai paesi in difficoltà, ma a condizioni molto severe.
Questo fondo va alimentato da versamenti obbligatori a carico degli Stati aderenti, e l’Italia ha sottoscritto l’impegno a versare 125 miliardi di euro in 5 anni. Sinora ne sono stati versati circa 50, quindi la rimanenza a nostro carico per i prossimi 3 anni è di 75 mld, 25 all’anno.
Sommati ai 50 mld che siamo costretti a trovare dal prossimo anno per ridurre il debito rispettando il fiscal compact, fanno 75 mld all’anno. Ho chiesto più volte ai difensori dell’euro dove pensano di trovare tali coperture, ma nessuno ha mai risposto.
Se le entrate non sono sufficienti a coprire la spesa prevista, questa va tagliata, ovvero vanno eliminate alcune voci considerate “superflue”. Purtroppo, fra queste sono state incluse anche spese fondamentali come quelle per istruzione e sanità.
Quindi: mentre avremmo bisogno di investire (per creare lavoro, infrastrutture e servizi che stimolino l’economia) siamo costretti a tagliare, ed ancor più dobbiamo tagliare se vogliamo ridurre le tasse! Questo spiega la centralità, nelle discussioni quotidiane sulla manovra economica, della questione “dove troviamo i soldi?”, perché i soldi per coprire tutte le spese necessarie per rilanciare l’economia in Italia, se dobbiamo contemporaneamente rispettare i vincoli dell’Eurozona per restare nell’euro, non basteranno mai. E l’unico pozzo a cui attingere per trovare queste risorse saranno sempre le tasche degli Italiani, svuotate attraverso maggiori tasse o attraverso tagli alla spesa pubblica (equivalenti a licenziamenti o riduzione dei servizi pubblici essenziali, che i cittadini dovranno pagare a prezzo più caro se privatizzati o non sovvenzionati).
Tutti i nostri soldi, frutto del nostro lavoro e dei nostri risparmi, sono finiti sino ad oggi in gran parte nella spesa pubblica destinata al rispetto dei suddetti vincoli dell’Eurozona, mentre la cosiddetta “spesa pubblica improduttiva” fatta di costi della politica, auto blu e sprechi vari sul nostro territorio, ammonta a cifre irrisorie in confronto alle decine di miliardi finiti nella voragine del MES. Attraverso quei soldi da noi versati al MESF (oggi MES) sono stati concessi gli “aiuti” alla Spagna e poi alla Grecia per evitarne il default.
Le condizioni di vita e dell’economia nei due Paesi finora “salvati” sono però peggiorate in modo gravissimo: anche la Spagna, che oggi ci raccontano che “ha ricominciato a crescere”, in realtà ha un tasso di disoccupazione pari al 27% (il nostro è al 12,5%).
Chi ha beneficiato dell’operazione, invece, è stata la Germania, o meglio le banche tedesche, che erano e sono i maggiori creditori di quei Paesi, e grazie ai prestiti erogati dal MES (con soldi anche nostri) dato che i fondi medesimi vanno versati direttamente alle banche creditrici, hanno potuto farsi pagare buona parte del loro credito.
Per questa ragione, qualcuno ha correttamente definito la politica del Governo Monti come “un piano di rientro delle Banche tedesche”.
Tutto quanto sopra detto dovrebbe bastare a far capire che l’uscita dall’Eurozona è inevitabile ed imprescindibile per consentire al nostro Paese in apnea di sciogliersi dalla zavorra dei Trattati e risalire a galla a respirare.
Questo è l’insieme dei motivi per cui l’euro è un sistema insostenibile.
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LA ZAVORRA DELL’EURO
Sul tema dell’euro si sentono e si leggono in continuazione i commenti più disparati, alcuni dei quali liquidano l’analisi economica dei danni portati dalla moneta unica come fossero fandonie o “discorsi da bar”.
In realtà, il fallimento del sistema euro è stato accertato e dichiarato dai più illustri economisti mondiali, tra cui sei premi nobel per l’economia (Milton Friedman, Joseph Stigliz, Paul Krugman, Amartya Sen, Christopher Pissarrides, James Mirrless) e numerosi docenti in materie economiche italiani e stranieri.
Anche alcuni dei “padri fondatori” dell’Eurozona, come il tedesco Oskar Lafontaine o intellettuali europeisti come il francese François Haisbourg, oggi hanno riconosciuto come la scelta dell’euro sia stata un errore, e come l’unico modo di porvi rimedio è uscirne.
L’Eurozona è infatti da circa 5 anni in una profonda crisi di sistema che ha portato molti Paesi che ne fanno parte ad un arretramento del prodotto interno e dei livelli di reddito ai livelli medi di dieci anni fa, e per ora le stime reali sulla possibile ripresa sono molto pessimistiche.
Le cause della crisi, tuttavia, nell’analisi fuorviante ed antistorica data da molti commentatori su giornali e tv, sono da ricondursi ad altri problemi, principalmente al debito pubblico, che si dice essere dovuto ad una scriteriata politica scialacquona, che ha favorito nell’ultimo decennio troppa “spesa pubblica improduttiva”; alla “corruzione, evasione e poca voglia di lavorare” attribuite all’etnìa italiana in genere; al “non aver fatto le riforme strutturali” che invece la Germania ha fatto e per questo “è più brava di noi”.
Ci hanno dunque convinto che la crisi “ce la meritiamo”, per aver votato politici corrotti ed inetti, e che per salvarci dobbiamo affidarci ai “tecnici” i quali, grazie alle politiche tese al “più Europa”, ci faranno diventare bravi quanto i Tedeschi.
Con queste argomentazioni ci hanno fatto accettare misure di “austerity”, cioè tagli alla spesa pubblica (anche a servizi essenziali come sanità, istruzione, ecc.) ed aumenti della pressione fiscale, sino a renderla la più alta in Europa.
Il risultato – ampiamente prevedibile – è stato un aggravamento della crisi, con un aumento del debito pubblico e della disoccupazione; una contrazione ancora maggiore dei consumi con conseguente crollo delle piccole e medie imprese; una stagnazione del mercato in quasi ogni settore ed un generale impoverimento del Paese.
Quasi tutti ormai concordano nel riconoscere che le misure di austerity hanno fallito ed anzi hanno contribuito a peggiorare la situazione.
Ma quali sono allora le vere cause della crisi dell’Eurozona?
La crisi in realtà è scoppiata a causa di un accumulo di debito privato nei Paesi periferici, grazie al facile accesso ai prestiti da parte delle banche dei Paesi centrali, dovuto alla libera circolazione dei capitali ed ai tassi ci interesse favorevoli.
Quando, nel 2008, è arrivato lo shock economico dovuto alla crisi dei mutui subprime ed al fallimento della Lehman Brothers negli USA, le banche, subendo ingenti perdite, hanno ristretto l’accesso al credito, chiedendo alti tassi di interesse nei paesi periferici, a causa della loro cresciuta inaffidabilità per i mercati: così è aumentato lo spread.
Le banche fortemente indebitate sul punto di fallire (vedi MPS) sono state “salvate” dagli Stati, così il debito privato si è tramutato in debito pubblico, ed il suo onere è stato fatto ricadere sui cittadini attraverso l’imposizione di maggiori tasse e le politiche di austerità.
Chi ci ha guadagnato? Le banche dei Paesi core, che nonostante i prestiti eccessivi ed imprudenti hanno ripianato i loro crediti, e gli industriali degli stessi Paesi, grazie ai profitti accumulati negli anni del boom. Chi ci ha rimesso sono gli Stati periferici (accusati falsamente di essere responsabili della crisi per aver accumulato debito pubblico), e i loro cittadini, chiamati ingiustamente a ripianare le perdite.
I Paesi del centro, inoltre (Germania in primis), hanno potuto far crescere costantemente le proprie esportazioni senza che si verificasse l’effetto riequilibrante del sistema dato dal cambio flessibile, cioè l’aumento del valore della moneta del Paese in surplus.
Anche grazie a questo, le rispettive posizioni di surplus (della Germania) e di deficit (dei Paesi della periferia) si sono consolidate senza più riequilibrarsi.
L’introduzione dell’euro, dunque, ha avuto come primo effetto quello di eliminare un elemento fondamentale per il buon funzionamento dell’economia in un’area commerciale internazionale: la flessibilità del cambio.
Ma ancora oggi si tenta di far passare per fallimento dello Stato un effetto distruttivo del meccanismo del mercato.
Per coloro che hanno voluto e difendono ancora strenuamente la deregolamentazione dei mercati finanziari – ovvero la rimozione dei vincoli un tempo esistenti alla libera circolazione dei capitali, tenendola al di fuori del controllo dei governi – sarebbe deleterio ammettere che proprio il mercato “libero” conduce ad esiti socialmente nefasti. Perciò conviene loro diffondere la credenza per cui ogni problema nasce dal debito pubblico, cioè quello dovuto agli investimenti statali per finanziare la spesa pubblica, con particolare accento su quella “improduttiva” (che a detta di questi “liberisti” sarebbe la maggior parte).
E giù quindi ad elencare i vizi e il malcostume dello Stato italiano: la casta, la corruzione, l’evasione, ecc.
Ma la corruzione in Italia c’era anche negli anni ’80 e ’90 (ai tempi di Craxi, Poggiolini, Di Lorenzo, ecc.) e l’Italia era la 5° potenza industriale del mondo, cioè l’economia tirava alla grande; peraltro, il caso più rilevante di corruzione in termini di numeri, ad oggi, è quello posto in essere dalla teutonica Siemens.
E l’evasione di cui ci rimproverano ogni minuto è certamente significativa, ma va detto che le nostre tasse sono le più alte in Europa ed evadere “qualcosa” non significa evadere totalmente. E nonostante l’evasione, siamo comunque quelli che pagano più tasse (in concreto) in Europa, e dopo di noi, nella classifica europea per importo di denaro evaso, c’è subito la “virtuosa” Germania. Non è un dettaglio né un mistero, poi, che la nostra pressione fiscale ha battuto ogni record, attestandosi ad un livello tale da minare la sopravvivenza stessa delle imprese che non vogliano evadere neanche un centesimo. Sicuramente, se le tasse fossero più basse, la percentuale di evasione scenderebbe di pari passo.
Agli Italiani viene anche attribuito spesso dagli stranieri l’epiteto di “fannulloni”: credo che soltanto uno sguardo al mondo delle piccole medie imprese, sul cui lavoro si fonda in gran parte la nostra economia, basti a smentire tale accusa, tanto offensiva quanto pretestuosa ed infondata.
La menzogna del debito pubblico come causa della crisi serve quindi a giustificare “misure di rilancio dell’economia” alternative all’utilizzo di investimenti pubblici (assolutamente non compatibili con l’obiettivo primario – impostoci dalla UE – di riduzione della spesa pubblica), cioè politiche di riduzione dei salari dei lavoratori dipendenti: unico intervento possibile, in un sistema di moneta unica, per restituire “competitività” ai nostri prodotti industriali. Queste politiche vengono propugnate attraverso la progressiva erosione dei diritti dei lavoratori, tramite l’incentivazione della c.d. “flessibilità in uscita” (leggi: licenziamenti più facili), e la successiva introduzione di strumenti che aumentino la “flessibilità in entrata”, cioè la diminuzione dei costi per le nuove assunzioni da parte delle imprese, con la creazione di modelli contrattuali che eliminano l’obbligo contributivo e cronicizzano il precariato, oltre a prevedere salari molto bassi. (v. “minijob” tedeschi)
L’accettazione di tali gravissime compressioni dei diritti dei lavoratori e dell’entità dei salari, alle quali si affiancano poi interventi di allontanamento dell’età pensionabile ed eliminazione delle pensioni retributive (v. riforma Fornero), viene fatta accettare ai sindacati e ai lavoratori stessi in nome del “ce lo chiede l’Europa”, utilizzando il pretesto del fine di unità europea, che funge da “vincolo esterno” alla politiche sopra descritte, sollevando i politici che le propongono e le approvano dalla responsabilità per le conseguenze che ne deriveranno. Anche l’aumento della disoccupazione, a causa dei fallimenti continui delle PMI e delle politiche di riduzione del personale per far fronte alla crisi, accentua la corsa al ribasso dei salari.
Nell’immediato, ciò si traduce in un’apparente aumento del profitto per l’imprenditore (datore di lavoro). Ma in realtà, la diminuzione della capacità di acquisto delle famiglie dei lavoratori (dovuta al calo dei salari) produce una contrazione della domanda interna si consuma meno, perché si hanno meno soldi da spendere) e quindi un calo delle vendite nel mercato interno. Da queste politiche quindi, trae vantaggio (a lungo termine, quando le riforme entrano a regime) solo il mercato delle esportazioni, mentre il mercato interno rallenta sempre di più.
L’effetto di queste misure imposteci dall’Europa ha prodotto l’aumento dei lavoratori precari e l’impoverimento sempre maggiore degli Italiani, con una conseguente recessione dei consumi che ha portato al fallimento di altre imprese, a ulteriori licenziamenti e quindi alla creazione di nuova disoccupazione.
E oggi dunque, come potremmo uscire dalla crisi?
L’introduzione dell’euro come moneta unica, sottoposta all’esclusivo controllo della Banca Centrale Europea, ha tolto all’Italia la sovranità monetaria, cioè la possibilità di stampare moneta, iniettando denaro nel sistema economico, consentendo così di finanziare investimenti pubblici per rilanciare l’occupazione, e la possibilità di lasciare che la moneta, con il cambio flessibile, “fluttui” liberamente sui mercati, svalutandosi spontaneamente di quel tanto che serve a riallinearla al rivello della nostra inflazione reale e restituendo in tal modo (senza necessità di ridurre i salari) la competitività perduta ai nostri prodotti sul mercato estero (rilanciando così le esportazioni).
Questo è il primo, fondamentale aspetto paralizzante della nostra economia: l’impossibilità di emettere e controllare la propria moneta, quindi di utilizzare misure di politica valutaria (cioè che agiscono sul valore della moneta).
Ma oltre a questo, l’adozione dell’euro ha posto ulteriori stringenti vincoli alle nostre politiche economiche.
L’adesione ai trattati UE, in particolare il trattato di Maastricht e quello di Lisbona, ha comportato l’accettazione da parte del nostro governo di sottometterci, cedendo la nostra sovranità anche sotto questo profilo, a regole e vincoli imposti e delineati da istituzioni esterne e sovranazionali, non elette (quindi antidemocratiche) e non soggette ad alcun potere di controllo o indirizzo da parte dei governi nazionali aderenti.
I più noti fra questi sono il Patto di bilancio europeo, detto “Fiscal compact”; Il Patto di Stabilità e di crescita; il Patto di stabilità interno ed il Meccanismo Europeo di Stabilità” (MES).
Il Fiscal Compact ha posto un limite invalicabile alla spesa pubblica che il nostro governo può affrontare per le esigenze del Paese: quello del pareggio del bilancio, ovvero la necessità che la spesa pubblica sia “coperta” da pari entrate nel bilancio pubblico, attraverso riscossione di imposte e tasse, vendita di beni pubblici, altre fonti di entrata.
Il PSC ci obbliga a rispettare i seguenti parametri di bilancio: un deficit pubblico non superiore al 3% del PIL e un debito pubblico al di sotto del 60% del PIL.
Da questo patto deriva quindi l’impossibilità per il nostro Paese – come per tutti gli altri membri dell’eurozona – di sforare il tetto del 3% del deficit, il che si traduce nell’impossibilità di effettuare investimenti pubblici per il rilancio dell’economia laddove la spesa destinata a coprirli superi il limite suddetto. In caso di sforamento, scatta la c.d. “procedura di infrazione”, cui l’Italia è stata sottoposta fino all’anno passato, ma non per tutti, visto che diversi Paesi europei (Francia e Germania, ad es.) hanno sforato il limite di diversi punti percentuali, e alcuni continuano a farlo, senza che venga loro applicata alcuna sanzione. All’Italia, nell’ultimo DPF è stata negata dalla UE la richiesta di sforare dello 0,1% il limite del 3% del deficit.
Il Patto di Stabilità Interno (PSI) obbliga al rispetto dei suddetti parametri anche le Pubbliche Amministrazioni. In base a detti vincoli, oggi le nostre Regioni e Comuni, anche se hanno avuto gestioni virtuose e dispongono così di “soldi in cassa” disponibili per soddisfare i bisogni delle comunità locali, non possono spenderli oltre i limiti prefissati, lasciando a volte nel degrado pubblici edifici, o scoperti servizi pubblici essenziali alla cittadinanza. Questo è il vincolo più odioso per i territori, difatti gli amministratori locali, Sindaci in testa, in più occasioni hanno protestato a gran voce chiedendone l’eliminazione.
Il MES ha sostituito il FESF e il MESF prima in vigore, ed emetterà prestiti ai paesi in difficoltà, ma a condizioni molto severe.
Questo fondo va alimentato da versamenti obbligatori a carico degli Stati aderenti, e l’Italia ha sottoscritto l’impegno a versare 125 miliardi di euro in 5 anni. Sinora ne sono stati versati circa 50, quindi la rimanenza a nostro carico per i prossimi 3 anni è di 75 mld, 25 all’anno.
Sommati ai 50 mld che siamo costretti a trovare dal prossimo anno per ridurre il debito rispettando il fiscal compact, fanno 75 mld all’anno. Ho chiesto più volte ai difensori dell’euro dove pensano di trovare tali coperture, ma nessuno ha mai risposto.
Se le entrate non sono sufficienti a coprire la spesa prevista, questa va tagliata, ovvero vanno eliminate alcune voci considerate “superflue”. Purtroppo, fra queste sono state incluse anche spese fondamentali come quelle per istruzione e sanità.
Quindi: mentre avremmo bisogno di investire (per creare lavoro, infrastrutture e servizi che stimolino l’economia) siamo costretti a tagliare, ed ancor più dobbiamo tagliare se vogliamo ridurre le tasse! Questo spiega la centralità, nelle discussioni quotidiane sulla manovra economica, della questione “dove troviamo i soldi?”, perché i soldi per coprire tutte le spese necessarie per rilanciare l’economia in Italia, se dobbiamo contemporaneamente rispettare i vincoli dell’Eurozona per restare nell’euro, non basteranno mai. E l’unico pozzo a cui attingere per trovare queste risorse saranno sempre le tasche degli Italiani, svuotate attraverso maggiori tasse o attraverso tagli alla spesa pubblica (equivalenti a licenziamenti o riduzione dei servizi pubblici essenziali, che i cittadini dovranno pagare a prezzo più caro se privatizzati o non sovvenzionati).
Tutti i nostri soldi, frutto del nostro lavoro e dei nostri risparmi, sono finiti sino ad oggi in gran parte nella spesa pubblica destinata al rispetto dei suddetti vincoli dell’Eurozona, mentre la cosiddetta “spesa pubblica improduttiva” fatta di costi della politica, auto blu e sprechi vari sul nostro territorio, ammonta a cifre irrisorie in confronto alle decine di miliardi finiti nella voragine del MES. Attraverso quei soldi da noi versati al MESF (oggi MES) sono stati concessi gli “aiuti” alla Spagna e poi alla Grecia per evitarne il default.
Le condizioni di vita e dell’economia nei due Paesi finora “salvati” sono però peggiorate in modo gravissimo: anche la Spagna, che oggi ci raccontano che “ha ricominciato a crescere”, in realtà ha un tasso di disoccupazione pari al 27% (il nostro è al 12,5%).
Chi ha beneficiato dell’operazione, invece, è stata la Germania, o meglio le banche tedesche, che erano e sono i maggiori creditori di quei Paesi, e grazie ai prestiti erogati dal MES (con soldi anche nostri) dato che i fondi medesimi vanno versati direttamente alle banche creditrici, hanno potuto farsi pagare buona parte del loro credito.
Per questa ragione, qualcuno ha correttamente definito la politica del Governo Monti come “un piano di rientro delle Banche tedesche”.
Tutto quanto sopra detto dovrebbe bastare a far capire che l’uscita dall’Eurozona è inevitabile ed imprescindibile per consentire al nostro Paese in apnea di sciogliersi dalla zavorra dei Trattati e risalire a galla a respirare.
Questo è l’insieme dei motivi per cui l’euro è un sistema insostenibile.
Avv. Francesca Donato