Come quasi ogni giorno ormai, anche ieri il Presidente della Repubblica ha espresso il consueto monito al governo ed a tutte le forze politiche, a non intaccare la stabilità dell’esecutivo e “fare le riforme necessarie per la crescita”.
Qualcuno avrà notato che ogni volta che un politico parla di “riforme strutturali”, si guarda bene dallo scendere nel dettaglio e precisare di quali riforme si tratterebbe.
Per chiarire la questione, oggi mi soffermerò ad illustrare le riforme sul lavoro, che dal governo Monti ad oggi vengono indicate come essenziali per recuperare la “competitività” ed espressamente individuate nel modello adottato dalla Germania sotto il nome di “riforme Harz”.
Il 14 marzo del 2003, il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder annunciava al Bundestag, il parlamento tedesco, il varo del pacchetto di riforme che presero il nome di Agenda 2010.
Schröder, alla guida di un governo rosso-verde con i Grünen, i Verdi tedeschi, voleva rendere la Germania più competitiva a livello internazionale e rilanciare la crescita stagnante, trasformando il mercato del lavoro con l’introduzione di maggiore flessibilità per favorire l’occupazione. Inoltre, per curare l’allora “malato d’Europa”, proponeva di tagliare la spesa pubblica sacrificando lo stato sociale: sussidi ai disoccupati, pensioni, sanità, assistenza sociale.
Quindi, dieci anni fa in Germania, si proponevano le stesse soluzioni che in Italia l’attuale governo, tenuto artificiosamente in piedi sin dal suo nascere dal Presidente Napolitano, chiede oggi a gran voce: riforme del mercato del lavoro e tagli alla spesa pubblica.
Bene, nell’opinione dei filogovernativi nostrani, quelle riforme sono la chiave del successo tedesco, dell’impareggiabile “competitività” della DDR rispetto agli altri Paesi europei, primo fra tutti l’Italia che è sempre stato, sino all’introduzione dell’euro nel 2002, il primo esportatore in Europa.
Analizziamo con precisione il contenuto di quelle riforme, per capire quali siano veramente i costi e i benefici da esse derivati per l’economia tedesca.
Il nucleo centrale dell’“agenda 2010” prese il nome da Peter Hartz, allora capo del personale della Volkswagen, incaricato da Schröder di presentare proposte per la riduzione della disoccupazione, ma la sua introduzione spaccò profondamente l’opinione pubblica tedesca, dando il via a manifestazioni di piazza, aspri dibattiti sui relativi pro e contro, opposizione dei sindacati, scontri tra i partiti e nei partiti.
Il motivo di tali contrasti è presto detto: con le riforme Harz si sono drasticamente ridotte le garanzie poste a tutela dei diritti dei lavoratori, tramite l’abolizione del salario minimo, la previsione di contratti part-time a tempo determinato con retribuzione fissa di 400,00 euro al mese (450,00 dal gennaio 2013) ed eliminazione del diritto alle ferie retribuite, alla retribuzione garantita in caso di malattia, al TFR.
Inoltre, sono stati notevolmente ridotti i contributi pensionistici per i lavoratori dipendenti a carico dei datori di lavoro, integrati in parte dallo Stato, oltre che facilitati i licenziamenti ed incentivate le assunzioni tramite consistenti sgravi fiscali alle imprese.
Ciò ha comportato, nei fatti, una contrazione del numero di posti di lavoro a tempo indeterminato e salario garantito, a favore di un boom dei c.d. “minijob”, contratti di lavoro precari ed a salario ridotto.
Per sostenere i costi delle suddette riforme, dal lato dell’integrazione dei contributi e degli sgravi fiscali, la Germania ha dovuto, contrariamente a ciò che si dice, aumentare notevolmente la spesa pubblica, che difatti negli anni dal 2002 al 2013 è cresciuta significativamente, comportando un aumento del debito (mentre quello italiano è rimasto pressoché invariato sino al 2011, ovvero all’avvento del governo Monti che ha dato luogo alla successiva crescita fino all’attuale soglia record del 130% del PIL). Questo è il dato reale, che smentisce totalmente coloro che affermano che nel decennio successivo all’adozione dell’euro l’Italia, rispetto alla Germania, “ha speso troppo”.
La verità invece, è che tra il 2007 e il 2011 lo Stato tedesco ha dovuto sborsare 53 miliardi di euro di soldi pubblici per integrare le retribuzioni dei lavoratori sottopagati, perché i salari da lavoro dei “minijob” non bastavano, e non bastano tuttora, per vivere.
Sul fronte delle imprese, però, i risultati sono stati ottimi: sono aumentati enormemente gliutili delle aziende e gli stipendi da nababbi dei loro amministratori delegati (5,3 milioni di euro in media nelle maggiori aziende quotate alla borsa Dax di Francoforte, con punte stratosferiche come i 14,5 milioni di euro dell’ad di Volkswagen Martin Winterkorn o gli 8,5 milioni di Dieter Zetsche, ad della Daimler), grazie anche ai predetti sgravi fiscali, inclusa la diminuzione dell’aliquota irpef sui redditi più alti, passata dal 53 per cento dell’era Kohl al 42 per cento di quella Schröder.
Insomma, pare evidente che il costo delle riforme Harz sia stato pagato dai cittadini tedeschi, tramite l’ingente utilizzo di fondi pubblici, ed in particolare dai lavoratori dipendenti, che hanno visto drasticamente ridursi le proprie retribuzioni, i propri diritti e i contributi pensionistici, inevitabile preludio ad un calo dell’importo delle future pensioni.
Ebbene sì, dunque, anche in Germania esiste la corruzione. Pare addirittura che gli indagati abbiano ammansito i sindacalisti più ritrosi fornendo loro, tramite prostitute assoldate ad hoc, servizi sessuali, organizzando allegri “festini”.
Ma torniamo alle riforme.
Qual’è il giudizio odierno sugli effetti delle riforme Harz? Naturalmente le campane sono diverse. A detta di Jochen Kluve, esperto di mercato del lavoro dell’Istituto Renano-Westfalico di ricerche economiche (RWI), “le riforme ci hanno molto aiutato durante la crisi, senza saremmo oggi nella situazione di Italia e Francia”.
Invece, secondo il giudizio del giudice Jürgen Borchert, presidente del 6° tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, “quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre contemporaneamente una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato. Dinanzi ai nostri occhi si sta sviluppando uninasprimento della povertà nella società tedesca che prima non era immaginabile. Alcuni anni di occupazione nel settore a bassi salari o di sussidi Hartz IV programmano la povertà per gli anni della pensione. Sin dall’inizio si è pensato a un indebolimento dei rappresentanti del fattore lavoro, ad esempio attraverso l’indebolimento dei sindacati. Quello che non finì Kohl lo fece paradossalmente il governo a guida socialdemocratica con l’Agenda 2010”.
Un po’ diverso da quanto sostengono i fautori delle riforme alla tedesca e che ci vendono il mito del benessere diffuso in Germania.
Ma sarà un’opinione isolata, quella di questo giudice? No, anzi.
Rispondendo ad un’interrogazione parlamentare del gruppo Die Linke, il ministero del Lavoro ha risposto che di fatto, negli ultimi 10 anni, non è stato creato più lavoro poiché il numero complessivo delle ore lavorative è cresciuto di poco. Dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento e intanto i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Altro che miracolo dei posti lavoro, scrive Publik, il mensile del sindacato ver.di.
Per Sabine Zimmermann, portavoce del gruppo parlamentare, “è la conferma di quello che abbiamo sempre detto: il cosiddetto miracolo dei posti di lavoro è un finto miracolo ed è fondato su una massiccia redistribuzione di posti di lavoro sicuri a tempo pieno in tanti piccoli e precari lavori a basso costo”. Katja Kipping, segretaria del partito, e Gregor Gysi capogruppo in parlamento e leader storico, hanno chiesto per contro una “Agenda sociale” che comprenda una pensione minima di 1050 euro, sussidi sociali e di disoccupazione più alti di quelli previsti da Hartz IV e un salario minimo orario per tutti i settori di almeno 10 euro.
Soltanto poche settimane fa, Angela Merkel ha dovuto cedere alle suddette richieste, formulate oggi dall’SPD, per poter raggiungere l’accordo delle “larghe intese” tedesco, introducendo nuovamente il salario minimo garantito.
Questo dovrebbe come minimo fare riflettere coloro che ancor oggi lodano i “virtuosi tedeschi” per aver fatto la riforma dei minijob, specie se si definiscono “di sinistra”.
Ancora una volta, dunque, pongo la questione politica: come può un partito “di sinistra” (e il PD, ad oggi, ama ancora definirsi tale), promuovere una riforma del mercato del lavoro che si è dimostrata deleteria già in Germania, per i diritti e le condizioni di vita proprio dei lavoratori dipendenti che tale partito, in linea di principio, dovrebbe tutelare?
Non viene a nessuno, fra gli elettori del PD, il sospetto che in realtà di “sinistra”, in tale partito, non ci sia più nulla? (Guarda caso, anche la “S” di sinistra, dalla sigla “PDS”, è stata coerentemente rimossa!)
Per quanto riguarda gli effetti reali delle riforme Harz sull’economia della Germania, è proprio vero, comunque, che sia dovuta davvero a quelle riforme la mitica “competitività” delle aziende tedesche?
In uno studio pubblicato dall’Istituto tedesco di ricerche economiche (DIW) dal titolo “Gli effetti aggregati delle riforme Hartz IV in Germania” si legge: “nonostante la sua buona reputazione tra i consulenti politici, le prove scientifiche della loro effettività macroeconomica rimangono incomplete e discontinue”. Viene fatto dunque notare che ci sono anche altri motivi che spiegano perché la Germania ha reagito meglio alla crisi:
1) i pacchetti congiunturali miliardari (I° del 2008 e II° del 2009) con i quali il governo ha aiutato l’economia con: premi statali di 2500 euro per l’acquisto di una nuova auto o di un’auto acquistata meno di dodici mesi prima; 10 miliardi di investimenti per i comuni e i Länder e 4 per investimenti federali per asili, scuole, ospedali, viabilità, infrastrutture, tecnologia; 100 miliardi di crediti alle aziende e all’economia e riduzione delle tasse alle aziende nell’ordine di alcuni miliardi di euro.
2) anni di rivendicazioni salariali sindacali molto moderate“hanno fatto di più per le esportazioni e per il mercato del lavoro dell’Agenda 2010” dice l’ex responsabile dell’Istituto DIW Gert Wagner. L’economista Heiner Flassbeck, in un articolo pubblicato su Eurointelligence il 18 gennaio del 2012, spiega che “sin dall’inizio dell’unione monetaria i politici tedeschi misero sotto pressione (abbiamo visto sopra come) i sindacati per indurli a conseguire un aumento del costo unitario del lavoro e dei prezzi inferiori a quello di altri paesi”.
3) L’espansione del lavoro part-time, che consente altresì di usufruire dei sussidi sociali a favore dei residenti;
4) La buona fama dei prodotti Made in Germany nei paesi emergenti, che ne sostiene comunque la domanda, anche in caso di prezzi superiori a quelli locali.
Lo stesso Kluve ammette che non esistono prove certe per stabilire come si sarebbe sviluppata la Germania senza le riforme Hartz IV.
In buona sostanza, risulta che il merito del vantaggio per l’export tedesco attribuito alle riforme Harz, in realtà risiede soprattutto nell’ingente spesa pubblica sostenuta dallo Stato tedesco a favore delle imprese e per compensare il calo del potere d’acquisto dei cittadini, e nella “resa” dei sindacati di fronte agli interessi della grande industria tedesca.
Peraltro, i benefici per l’economia tedesca sono in dubbio per gli anni a venire, dato che un sistema basato unicamente sull’export comincia a mostrare i segni della propria fragilità. (v. le perplessità espresse da diversi osservatori: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-21/prezzo-minijob-082219.shtml).
Una vittoria del capitalismo mascherata dall’implementazione dello Stato sociale tramite i sussidi e i servizi pubblici a basso costo: questo è il modello di riforma che vuole per l’Italia il nostro Presidente della Repubblica, riforma che dovrà essere realizzata tramite il governo del PD, anzi del “nuovo PD” con segretario l’effervescente Matteo Renzi.
Forse dovrebbero informarsi un po’ meglio, i giovani che vedono in lui una speranza per il proprio futuro…
Ma c’è anche un altro aspetto che, a questo punto, non si può non sottolineare.
Il successo delle riforme Harz per l’economia nazionale tedesca, in termini di surplus della bilancia commerciale, ovvero di “boom” dell’export, come si è visto sopra, è stato raggiunto grazie ad ingenti investimenti pubblici, costati centinaia di miliardi alle casse dello Stato e riflettutisi in un evidente aumento costante del debito pubblico tedesco.
Anche a voler tralasciare gli impatti negativi sulla società, in tempi di disagio sociale elevatissimo come quello che stiamo oggi attraversando e le relative difficoltà di attuazione di dette riforme, mi chiedo come si può proporre di adottare oggi un tale modello, con i costi elevatissimi che esso presuppone, quando abbiamo un debito pubblico al 130% del PIL e siamo assoggettati a vincoli europei alla spesa che ci impongono di non sforare il 3% del deficit e di rientrare sotto il 60% del debito?
In soldoni: visto che non possiamo assolutamente, per restare nell’Eurozona, aumentare la spesa pubblica, ma dobbiamo anzi diminuirla, come pensiamo di coprire il fabbisogno economico che tali riforme imporrebbero, per realizzare gli stessi obiettivi? Non dimentichiamoci che, fra l’altro, siamo obbligati a versare ogni anno qualcosa come 25 miliardi al solo MES, sempre in ottemperanza dei Trattati europei…
Quindi, quale sarebbe la soluzione, visto che i soldi per sostenere le riforme adottate in Germania, da noi non ci sono?
L’unica risposta possibile nel mondo reale è questa: le riforme “alla tedesca” verrebbero finanziate tramite ulteriori enormi e draconiani tagli alla spesa sociale, che abbandonerebbero nell’indigenza sempre più persone, privandole dei servizi minimi essenziali, attraverso massicce privatizzazioni dei servizi pubblici locali (e conseguenti licenziamenti), riduzione ai minimi termini della spesa pubblica per sanità (abbiamo già visto il taglio dei posti letto negli ospedali), istruzione, ricerca, cultura, pensioni, assistenza ai disabili, e via dicendo.
Tutto questo produrrebbe il crollo totale della domanda interna e dei consumi, con l’ecatombe finale delle PMI e delle libere professioni ed il prosperare unicamente delle grandi industrie che vivono di export.
Ma ciò produrrebbe anche un malessere sociale di dimensioni mai viste nel nostro Paese, che finirebbe per fare esplodere tensioni e reazioni violente incontenibili, confronto alle quali le proteste a cui assistiamo in questi giorni sembrerebbero giochi di bambini.
Ma tutte queste problematiche non vengono considerate da chi ci governa, o forse sono sottovalutate, o, peggio ancora, ritenute risolvibili grazie al “controllo del territorio” cui si richiama il nostro ministro degli interni Alfano, che ha ben pensato di aumentare in fretta e furia gli stipendi delle forze di Polizia, per scongiurare eventuali defezioni, le cui avvisaglie si erano già manifestate…
Il quadro che si profila per il nostro Paese è davvero sconfortante, vista l’inattaccabilità del governo Letta, strettamente “blindato” da un Napolitano sempre più compreso nel ruolo di guardiano della “stabilità”, e considerata l’unica alternativa politica che si presenterebbe in caso di cambio ai vertici, data dal presunto “innovatore” Renzi, che in realtà accellererebbe (come ha già chiaramente annunciato) il “cammino delle riforme”.
La conclusione è drammatica e senza vie d’uscita: a meno di un miracolo, o di una rivoluzione, l’Italia è spacciata.
Staremo a vedere se la maggioranza degli Italiani sceglierà di limitarsi a pregare, o deciderà di iniziare a combattere per salvare la propria vita ed il nostro Paese.
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LE RIFORME STRUTTURALI CHE ESIGE NAPOLITANO
Come quasi ogni giorno ormai, anche ieri il Presidente della Repubblica ha espresso il consueto monito al governo ed a tutte le forze politiche, a non intaccare la stabilità dell’esecutivo e “fare le riforme necessarie per la crescita”.
Qualcuno avrà notato che ogni volta che un politico parla di “riforme strutturali”, si guarda bene dallo scendere nel dettaglio e precisare di quali riforme si tratterebbe.
Per chiarire la questione, oggi mi soffermerò ad illustrare le riforme sul lavoro, che dal governo Monti ad oggi vengono indicate come essenziali per recuperare la “competitività” ed espressamente individuate nel modello adottato dalla Germania sotto il nome di “riforme Harz”.
Il 14 marzo del 2003, il cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder annunciava al Bundestag, il parlamento tedesco, il varo del pacchetto di riforme che presero il nome di Agenda 2010.
Schröder, alla guida di un governo rosso-verde con i Grünen, i Verdi tedeschi, voleva rendere la Germania più competitiva a livello internazionale e rilanciare la crescita stagnante, trasformando il mercato del lavoro con l’introduzione di maggiore flessibilità per favorire l’occupazione. Inoltre, per curare l’allora “malato d’Europa”, proponeva di tagliare la spesa pubblica sacrificando lo stato sociale: sussidi ai disoccupati, pensioni, sanità, assistenza sociale.
Quindi, dieci anni fa in Germania, si proponevano le stesse soluzioni che in Italia l’attuale governo, tenuto artificiosamente in piedi sin dal suo nascere dal Presidente Napolitano, chiede oggi a gran voce: riforme del mercato del lavoro e tagli alla spesa pubblica.
Bene, nell’opinione dei filogovernativi nostrani, quelle riforme sono la chiave del successo tedesco, dell’impareggiabile “competitività” della DDR rispetto agli altri Paesi europei, primo fra tutti l’Italia che è sempre stato, sino all’introduzione dell’euro nel 2002, il primo esportatore in Europa.
Analizziamo con precisione il contenuto di quelle riforme, per capire quali siano veramente i costi e i benefici da esse derivati per l’economia tedesca.
Il nucleo centrale dell’“agenda 2010” prese il nome da Peter Hartz, allora capo del personale della Volkswagen, incaricato da Schröder di presentare proposte per la riduzione della disoccupazione, ma la sua introduzione spaccò profondamente l’opinione pubblica tedesca, dando il via a manifestazioni di piazza, aspri dibattiti sui relativi pro e contro, opposizione dei sindacati, scontri tra i partiti e nei partiti.
Il motivo di tali contrasti è presto detto: con le riforme Harz si sono drasticamente ridotte le garanzie poste a tutela dei diritti dei lavoratori, tramite l’abolizione del salario minimo, la previsione di contratti part-time a tempo determinato con retribuzione fissa di 400,00 euro al mese (450,00 dal gennaio 2013) ed eliminazione del diritto alle ferie retribuite, alla retribuzione garantita in caso di malattia, al TFR.
Inoltre, sono stati notevolmente ridotti i contributi pensionistici per i lavoratori dipendenti a carico dei datori di lavoro, integrati in parte dallo Stato, oltre che facilitati i licenziamenti ed incentivate le assunzioni tramite consistenti sgravi fiscali alle imprese.
Ciò ha comportato, nei fatti, una contrazione del numero di posti di lavoro a tempo indeterminato e salario garantito, a favore di un boom dei c.d. “minijob”, contratti di lavoro precari ed a salario ridotto.
Per sostenere i costi delle suddette riforme, dal lato dell’integrazione dei contributi e degli sgravi fiscali, la Germania ha dovuto, contrariamente a ciò che si dice, aumentare notevolmente la spesa pubblica, che difatti negli anni dal 2002 al 2013 è cresciuta significativamente, comportando un aumento del debito (mentre quello italiano è rimasto pressoché invariato sino al 2011, ovvero all’avvento del governo Monti che ha dato luogo alla successiva crescita fino all’attuale soglia record del 130% del PIL). Questo è il dato reale, che smentisce totalmente coloro che affermano che nel decennio successivo all’adozione dell’euro l’Italia, rispetto alla Germania, “ha speso troppo”.
La verità invece, è che tra il 2007 e il 2011 lo Stato tedesco ha dovuto sborsare 53 miliardi di euro di soldi pubblici per integrare le retribuzioni dei lavoratori sottopagati, perché i salari da lavoro dei “minijob” non bastavano, e non bastano tuttora, per vivere.
Sul fronte delle imprese, però, i risultati sono stati ottimi: sono aumentati enormemente gli utili delle aziende e gli stipendi da nababbi dei loro amministratori delegati (5,3 milioni di euro in media nelle maggiori aziende quotate alla borsa Dax di Francoforte, con punte stratosferiche come i 14,5 milioni di euro dell’ad di Volkswagen Martin Winterkorn o gli 8,5 milioni di Dieter Zetsche, ad della Daimler), grazie anche ai predetti sgravi fiscali, inclusa la diminuzione dell’aliquota irpef sui redditi più alti, passata dal 53 per cento dell’era Kohl al 42 per cento di quella Schröder.
Insomma, pare evidente che il costo delle riforme Harz sia stato pagato dai cittadini tedeschi, tramite l’ingente utilizzo di fondi pubblici, ed in particolare dai lavoratori dipendenti, che hanno visto drasticamente ridursi le proprie retribuzioni, i propri diritti e i contributi pensionistici, inevitabile preludio ad un calo dell’importo delle future pensioni.
Non è stato però facile, in Germania, far sì che i sindacati accettassero tali condizioni. Ma un aiutino, per ingoiare la pillola, sicuramente è arrivato dai benefici assicurati ai rappresentanti sindacali, sotto forma di mazzette e benefit vari, come emerso nelle inchieste per corruzione a carico dello stesso Harz e di altri politici, con particolare riguardo alle imprese Volkswagen (http://www.corriere.it/Primo_Piano/Cronache/2005/07_Luglio/05/brasiliana.shtml) e Siemens (http://www.ilsole24ore.com/art/SoleOnLine4/Finanza%20e%20Mercati/2007/04/siemens-margiocco.shtml?uuid=0c682774-f48c-11db-95fe-00000e251029&DocRulesView=Libero) ad oggi, quest’ultimo, il più grande caso di corruzione della storia.
Ebbene sì, dunque, anche in Germania esiste la corruzione. Pare addirittura che gli indagati abbiano ammansito i sindacalisti più ritrosi fornendo loro, tramite prostitute assoldate ad hoc, servizi sessuali, organizzando allegri “festini”.
Ma torniamo alle riforme.
Qual’è il giudizio odierno sugli effetti delle riforme Harz? Naturalmente le campane sono diverse. A detta di Jochen Kluve, esperto di mercato del lavoro dell’Istituto Renano-Westfalico di ricerche economiche (RWI), “le riforme ci hanno molto aiutato durante la crisi, senza saremmo oggi nella situazione di Italia e Francia”.
Invece, secondo il giudizio del giudice Jürgen Borchert, presidente del 6° tribunale sociale del Land Hessen a Darmstadt, “quando un’economia non riesce a garantire quanto basta per vivere alle persone che lavorano duramente, mentre contemporaneamente una piccola fascia di persone ad alto reddito accumula ricchezze impensabili, siamo alla fine dell’economia sociale di mercato. Dinanzi ai nostri occhi si sta sviluppando un inasprimento della povertà nella società tedesca che prima non era immaginabile. Alcuni anni di occupazione nel settore a bassi salari o di sussidi Hartz IV programmano la povertà per gli anni della pensione. Sin dall’inizio si è pensato a un indebolimento dei rappresentanti del fattore lavoro, ad esempio attraverso l’indebolimento dei sindacati. Quello che non finì Kohl lo fece paradossalmente il governo a guida socialdemocratica con l’Agenda 2010”.
Un po’ diverso da quanto sostengono i fautori delle riforme alla tedesca e che ci vendono il mito del benessere diffuso in Germania.
Ma sarà un’opinione isolata, quella di questo giudice? No, anzi.
Rispondendo ad un’interrogazione parlamentare del gruppo Die Linke, il ministero del Lavoro ha risposto che di fatto, negli ultimi 10 anni, non è stato creato più lavoro poiché il numero complessivo delle ore lavorative è cresciuto di poco. Dal 2000 al 2011 le ore di lavoro sono aumentate soltanto dello 0,3 per cento e intanto i posti di lavoro a tempo indeterminato sono diminuiti di 1,8 milioni di unità. Altro che miracolo dei posti lavoro, scrive Publik, il mensile del sindacato ver.di.
Per Sabine Zimmermann, portavoce del gruppo parlamentare, “è la conferma di quello che abbiamo sempre detto: il cosiddetto miracolo dei posti di lavoro è un finto miracolo ed è fondato su una massiccia redistribuzione di posti di lavoro sicuri a tempo pieno in tanti piccoli e precari lavori a basso costo”. Katja Kipping, segretaria del partito, e Gregor Gysi capogruppo in parlamento e leader storico, hanno chiesto per contro una “Agenda sociale” che comprenda una pensione minima di 1050 euro, sussidi sociali e di disoccupazione più alti di quelli previsti da Hartz IV e un salario minimo orario per tutti i settori di almeno 10 euro.
Soltanto poche settimane fa, Angela Merkel ha dovuto cedere alle suddette richieste, formulate oggi dall’SPD, per poter raggiungere l’accordo delle “larghe intese” tedesco, introducendo nuovamente il salario minimo garantito.
Questo dovrebbe come minimo fare riflettere coloro che ancor oggi lodano i “virtuosi tedeschi” per aver fatto la riforma dei minijob, specie se si definiscono “di sinistra”.
Ancora una volta, dunque, pongo la questione politica: come può un partito “di sinistra” (e il PD, ad oggi, ama ancora definirsi tale), promuovere una riforma del mercato del lavoro che si è dimostrata deleteria già in Germania, per i diritti e le condizioni di vita proprio dei lavoratori dipendenti che tale partito, in linea di principio, dovrebbe tutelare?
Non viene a nessuno, fra gli elettori del PD, il sospetto che in realtà di “sinistra”, in tale partito, non ci sia più nulla? (Guarda caso, anche la “S” di sinistra, dalla sigla “PDS”, è stata coerentemente rimossa!)
Per quanto riguarda gli effetti reali delle riforme Harz sull’economia della Germania, è proprio vero, comunque, che sia dovuta davvero a quelle riforme la mitica “competitività” delle aziende tedesche?
In uno studio pubblicato dall’Istituto tedesco di ricerche economiche (DIW) dal titolo “Gli effetti aggregati delle riforme Hartz IV in Germania” si legge: “nonostante la sua buona reputazione tra i consulenti politici, le prove scientifiche della loro effettività macroeconomica rimangono incomplete e discontinue”. Viene fatto dunque notare che ci sono anche altri motivi che spiegano perché la Germania ha reagito meglio alla crisi:
1) i pacchetti congiunturali miliardari (I° del 2008 e II° del 2009) con i quali il governo ha aiutato l’economia con: premi statali di 2500 euro per l’acquisto di una nuova auto o di un’auto acquistata meno di dodici mesi prima; 10 miliardi di investimenti per i comuni e i Länder e 4 per investimenti federali per asili, scuole, ospedali, viabilità, infrastrutture, tecnologia; 100 miliardi di crediti alle aziende e all’economia e riduzione delle tasse alle aziende nell’ordine di alcuni miliardi di euro.
2) anni di rivendicazioni salariali sindacali molto moderate “hanno fatto di più per le esportazioni e per il mercato del lavoro dell’Agenda 2010” dice l’ex responsabile dell’Istituto DIW Gert Wagner. L’economista Heiner Flassbeck, in un articolo pubblicato su Eurointelligence il 18 gennaio del 2012, spiega che “sin dall’inizio dell’unione monetaria i politici tedeschi misero sotto pressione (abbiamo visto sopra come) i sindacati per indurli a conseguire un aumento del costo unitario del lavoro e dei prezzi inferiori a quello di altri paesi”.
3) L’espansione del lavoro part-time, che consente altresì di usufruire dei sussidi sociali a favore dei residenti;
4) La buona fama dei prodotti Made in Germany nei paesi emergenti, che ne sostiene comunque la domanda, anche in caso di prezzi superiori a quelli locali.
Lo stesso Kluve ammette che non esistono prove certe per stabilire come si sarebbe sviluppata la Germania senza le riforme Hartz IV.
In buona sostanza, risulta che il merito del vantaggio per l’export tedesco attribuito alle riforme Harz, in realtà risiede soprattutto nell’ingente spesa pubblica sostenuta dallo Stato tedesco a favore delle imprese e per compensare il calo del potere d’acquisto dei cittadini, e nella “resa” dei sindacati di fronte agli interessi della grande industria tedesca.
Peraltro, i benefici per l’economia tedesca sono in dubbio per gli anni a venire, dato che un sistema basato unicamente sull’export comincia a mostrare i segni della propria fragilità. (v. le perplessità espresse da diversi osservatori: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-21/prezzo-minijob-082219.shtml).
Una vittoria del capitalismo mascherata dall’implementazione dello Stato sociale tramite i sussidi e i servizi pubblici a basso costo: questo è il modello di riforma che vuole per l’Italia il nostro Presidente della Repubblica, riforma che dovrà essere realizzata tramite il governo del PD, anzi del “nuovo PD” con segretario l’effervescente Matteo Renzi.
Forse dovrebbero informarsi un po’ meglio, i giovani che vedono in lui una speranza per il proprio futuro…
Ma c’è anche un altro aspetto che, a questo punto, non si può non sottolineare.
Il successo delle riforme Harz per l’economia nazionale tedesca, in termini di surplus della bilancia commerciale, ovvero di “boom” dell’export, come si è visto sopra, è stato raggiunto grazie ad ingenti investimenti pubblici, costati centinaia di miliardi alle casse dello Stato e riflettutisi in un evidente aumento costante del debito pubblico tedesco.
Anche a voler tralasciare gli impatti negativi sulla società, in tempi di disagio sociale elevatissimo come quello che stiamo oggi attraversando e le relative difficoltà di attuazione di dette riforme, mi chiedo come si può proporre di adottare oggi un tale modello, con i costi elevatissimi che esso presuppone, quando abbiamo un debito pubblico al 130% del PIL e siamo assoggettati a vincoli europei alla spesa che ci impongono di non sforare il 3% del deficit e di rientrare sotto il 60% del debito?
In soldoni: visto che non possiamo assolutamente, per restare nell’Eurozona, aumentare la spesa pubblica, ma dobbiamo anzi diminuirla, come pensiamo di coprire il fabbisogno economico che tali riforme imporrebbero, per realizzare gli stessi obiettivi? Non dimentichiamoci che, fra l’altro, siamo obbligati a versare ogni anno qualcosa come 25 miliardi al solo MES, sempre in ottemperanza dei Trattati europei…
Quindi, quale sarebbe la soluzione, visto che i soldi per sostenere le riforme adottate in Germania, da noi non ci sono?
L’unica risposta possibile nel mondo reale è questa: le riforme “alla tedesca” verrebbero finanziate tramite ulteriori enormi e draconiani tagli alla spesa sociale, che abbandonerebbero nell’indigenza sempre più persone, privandole dei servizi minimi essenziali, attraverso massicce privatizzazioni dei servizi pubblici locali (e conseguenti licenziamenti), riduzione ai minimi termini della spesa pubblica per sanità (abbiamo già visto il taglio dei posti letto negli ospedali), istruzione, ricerca, cultura, pensioni, assistenza ai disabili, e via dicendo.
Tutto questo produrrebbe il crollo totale della domanda interna e dei consumi, con l’ecatombe finale delle PMI e delle libere professioni ed il prosperare unicamente delle grandi industrie che vivono di export.
Ma ciò produrrebbe anche un malessere sociale di dimensioni mai viste nel nostro Paese, che finirebbe per fare esplodere tensioni e reazioni violente incontenibili, confronto alle quali le proteste a cui assistiamo in questi giorni sembrerebbero giochi di bambini.
Ma tutte queste problematiche non vengono considerate da chi ci governa, o forse sono sottovalutate, o, peggio ancora, ritenute risolvibili grazie al “controllo del territorio” cui si richiama il nostro ministro degli interni Alfano, che ha ben pensato di aumentare in fretta e furia gli stipendi delle forze di Polizia, per scongiurare eventuali defezioni, le cui avvisaglie si erano già manifestate…
Il quadro che si profila per il nostro Paese è davvero sconfortante, vista l’inattaccabilità del governo Letta, strettamente “blindato” da un Napolitano sempre più compreso nel ruolo di guardiano della “stabilità”, e considerata l’unica alternativa politica che si presenterebbe in caso di cambio ai vertici, data dal presunto “innovatore” Renzi, che in realtà accellererebbe (come ha già chiaramente annunciato) il “cammino delle riforme”.
La conclusione è drammatica e senza vie d’uscita: a meno di un miracolo, o di una rivoluzione, l’Italia è spacciata.
Staremo a vedere se la maggioranza degli Italiani sceglierà di limitarsi a pregare, o deciderà di iniziare a combattere per salvare la propria vita ed il nostro Paese.
Francesca Donato