La barbarie del dibattito pubblico attuale non accenna a trovare un limite all’indecenza.
I media di massa e gli influenzatori filogovernativi della Rete oramai non perdono occasione per diffamare qualsiasi espressione di dissenso rispetto alla narrazione dominante. Una narrazione unica, globale e completamente scorrelata dai dati e dall’evidenza fattuale delle esperienze personali; una propaganda che investe gran parte delle nazioni del pianeta e che ripugna ovunque le persone di buon senso che non intendono convivere in perpetua dissonanza cognitiva. Una narrazione talmente grottesca nei suoi intenti manipolatori che non può generare che angoscia e rabbia in chi la subisce. E tutto ciò è esasperato dal patente fine terroristico con cui le notizie sul particolare evento epidemico vengono trasmesse da mesi, con i relativi bollettini di guerra e i soffocanti toni allarmistici: ovunque e incessantemente. Con le voci atone di giornalisti che, con il loro italiano stentato, bambinesco, angosciano per l’orrore della loro vacuità.
L’angoscia e la rabbia di chi vede le proprie attività, la propria occupazione e le proprie sicurezza economiche spazzate via insieme ai propri diritti – diritti che hanno reso fieri gli europei di essere tali – vengono alimentate senza sosta dalla manipolazione mediatica che, proprio perché non chiaramente razionalizzata, ineffabile, aggiunge un ulteriore peso destabilizzante sulla psicologia delle masse: le persone non si sentono semplicemente angosciate e terrorizzate dalle notizie, ma sono altresì angosciate e oltremodo arrabbiate per sentirsi inconsciamente prese in giro.
Il pubblico tende quindi a frazionarsi in due grandi gruppi: il primo è formato da coloro in cui l’angoscia prevale, in cui il terrorismo mediatico si trasforma in nevrosi, psicosi o comunque in un carico emotivo che non permette di mettere in discussione la propaganda, ovvero l’autorità, ovvero la fonte della propria destabilizzazione. Costoro sono le persone psicologicamente più vulnerabili, più indottrinate per eccesso di consumo di prodotti mediatici, o per aver frequentato percorsi di studio, anche lunghi, non seguiti da un raffinamento culturale. In entrambi i casi l’elaborazione delle paure non avviene perché non viene messo in discussione ciò che dà sicurezza: rispettivamente il paternalismo dei media, e quello che trova eco nel principio di autorità che pervade la carriera scolastica e universitaria. Le opinioni abbracciate per appartenenza a un partito, movimento, comunità sociale ecc. sono comunque riconducibili all’indottrinamento dei media di massa e dei percorsi formativi. A questo gruppo appartengono coloro che agiscono più o meno inconsciamente negli interessi delle forze sociali dietro all’autorità.
Il secondo grande gruppo che si viene a creare è quello di coloro nei quali invece prevale la rabbia: mentre l’angoscia e la paura bloccano, creano socialmente forze reazionarie, la rabbia è in nuce rivoluzionaria.
Queste persone che si sentono manipolate, che vedono i propri interessi sempre frustrati qualsiasi sia la narrazione dominante, possono rivolgere la propria rabbia contro l’autorità e magari attivarsi politicamente.
Per sua natura, questa parte della società è oltremodo eterogenea, in quanto è proprio un rifiuto psicologico all’omologazione che aiuta a mettere in discussione la narrazione dominante, ovvero l’autorità.
Questo crogiolo di persone dissenzienti ha strutturalmente un grave problema nell’indirizzare la rabbia: l’autorità da cui queste persone si sentono destabilizzate e oppresse non si risolve in particolari rappresentanti del potere politico, e neppure in particolari rappresentanti del potere economico o religioso. L’impersonalità delle forze sociali dietro l’autorità non permette loro di identificare l’oggetto contro il quale scaricare la propria rabbia e agire nel modo più o meno opportuno. Il frazionismo nell’organizzare qualsiasi forma di resistenza coordinata è pertanto esasperato.
Morte le ideologie rivoluzionarie e i paradigmi cognitivi a loro associate, le masse dissenzienti diventano facilmente preda di deliranti contro-narrazioni che le stesse autorità diffondono. Il massacro mediatico del dissenso – ovvero della dialettica politica, ovvero della democrazia – ha così inizio, e, come in guerra, ovvero come quando la politica finisce, ogni colpo, ogni mezzo più inumano e barbaro è permesso.
Chiunque nel mondo dissenta rispetto alla narrazione e alle misure prese in seguito all’epidemia viene tacciato di «negazionismo»: cioè chi dissente viene qualificato in modo da essere associato a un simpatizzante neonazista che nega fatti storici incontrovertibili. Ovvero la propaganda presenta sé stessa come fonte di «fatti incontrovertibili» a cui solo dei soggetti pericolosi, dei pazzi, possono non credere.
È così che i media mettono in risalto nei loro titoloni che nelle manifestazioni dei «negazionisti» si vedono simboli «nazisti» oppure ci sono rappresentanti di organizzazioni «neofasciste». Dopo la «reductio ad Hitlerum» del dissenso viene schernita la psicologia del dissenziente, un ignorante, portatore della follia stramboide da cui nasce il Male Assoluto – il nazismo come dipinto dalla propaganda hollywoodiana – che «non crede alla scienza». La «scienza» è la propaganda fonte di «fatti incontrovertibili» a cui chi si oppone è uno stramboide «terrapiattista», un paranoico «complottista», un irresponsabile e un pericolo per la collettività «nomask», «novax», e via, fino a che la pericolosa follia del dissenziente diventa il «Male Assoluto»: un «negazionista» come colui che nega l’Olocausto. Ovvero viene rappresentato come un criminale nazista che non ammette le proprie responsabilità per gli orrori commessi a causa della sua follia.
(Si noti che lo stessa sistema di potere che ha creato il nazismo e ha negato per tutto il dopoguerra le proprie responsabilità per le tragedie delle seconda guerra mondiale, è il medesimo che oggi taccia di nazismo le forze a lui antagoniste).
Ed è così che coloro che appartengono al primo gruppo sociale individuato, bloccati e soffocati dall’angoscia, scaricano la loro rabbia repressa – non elaborata – non contro le forze oppressive, non usano i propri strumenti culturali per analizzare gli accadimenti che li fanno star male; rivolgono i loro «due minuti d’odio» giornalieri contro i pericolosi stramboidi che dissentono: contro i «terrapiattisti», i «novax», i «nomask»: contro i «negazionisti». Tanto che tra gli stessi esponenti politici sostenitori del regime c’è chi ha affermato: «quel che mi permetto di fare qui è dire che ci sia una rivolta popolare contro chi ancora nega… bisogna combattere e non fare gli stupidi e gli irresponsabilinegando… Faremo di tutto per arginare le follie, la vanità e l’egocentrismo di persone irresponsabili».
I media dicono di preoccuparsi dell’epidemia? Chiunque si preoccupa delle misure prese a causa dell’emergenza – ovvero chiunque propone un pensiero politico – viene diffamato, schernito. Perfino minacciato, ascoltando le dichiarazioni del segretario di un partito al governo che incita alla «rivolta popolare» contro chi dissente.
La difficoltà di chi fa una riflessione politica nell’incanalare proficuamente la rabbia tramite le istituzioni, per mezzo di una manifestazione di piazza o grazie a forme di sindacalizzazione, spinge questa eterogenea parte di cittadini a cercare l’agorà virtuale dei «social», su Internet, in cui può sfogarsi ed esprimersi: magari provare a influenzare quella che una volta era chiamata «opinione pubblica», prima che il regime schiacciasse tutto ciò che fosse «pubblico» e democratico, a partire dalle «opinioni».
Ed ecco che il sacro fuoco della rabbia – l’ardore del dissenziente – viene continuamente soffocato tramite la minaccia di essere censurato per «hate speech», per «incitamento all’odio»: per essere un «odiatore».
Il messaggio dell’autorità è chiaro: «Non dovete arrabbiarvi, dovete avere paura».
Non dovete odiare i vostri oppressori e reagire, ma dovete essere terrorizzati ed accettare qualsiasi sopruso: in silenzio (immobili e ben distanziati, magari con la mascherina e le mani in vista…).
Mano a mano che queste vacue, terribilmente totalitarie qualifiche vengono usate come strumento di repressione del dissenso da parte dei media, anche il gruppo degli oppressi che per paura, per insicurezza, non mette al centro delle proprie riflessioni sull’emergenza gli aspetti politici, economici e sociali, ma si limita a rispondere pavlovianamente alle manipolazioni della propaganda, usa questi espedienti (a)dialettici per tacitare – rabbiosamente! – coloro che la propaganda afferma essere l’origine delle loro angosce: gli stramboidi, gli ignoranti de «la scienza», i pericolosi «nagazionisti» a cui togliere il servizio sanitario o il voto. Senza rendersi conto di contribuire a censurare e deprivare di tali diritti se stessi, visto che l’autorità ha pure ridotto a un putrido relitto fascista il concetto di «identità»: l’identità nazionale e di classe. Ovvero la coscienza di essere parte del medesimo gruppo sociale, di condividerne gli interessi, e di essere oppressi per motivi di classe (paludati mediaticamente da grandi narrazioni climatologiche, demografiche, catastrofiste…). Dove non c’è identità non c’è solidarietà.
E così, man mano che, come dicevamo, queste vacue e diffamatorie qualifiche entrano nell’uso comune, il guinzaglio alla libera manifestazione ed espressione delle proprie idee si accorcia, insieme alla possibilità di perseguire i propri legittimi interessi. L’uso del termina «negazionista» va ben al di là della manifestazione di un profondo disprezzo della Shoah, al limite dell’antisemitismo: è il profondo disprezzo per qualsiasi dialettica politica, per qualsiasi sacralità e dignità della personalità umana che si realizza nella vita pubblica.
Le autorità si erano già portate avanti nel giugno del 2016, legiferando affinché il «negazionismo» fosse reato, nonostante anche illustri esponenti della comunità ebraica avessero manifestato il proprio dissenso.
Non è difficile capire in che direzione si stia andando.
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La criminalizzazione del dissenso: l’uso totalitario del termine «negazionismo».
La barbarie del dibattito pubblico attuale non accenna a trovare un limite all’indecenza.
I media di massa e gli influenzatori filogovernativi della Rete oramai non perdono occasione per diffamare qualsiasi espressione di dissenso rispetto alla narrazione dominante. Una narrazione unica, globale e completamente scorrelata dai dati e dall’evidenza fattuale delle esperienze personali; una propaganda che investe gran parte delle nazioni del pianeta e che ripugna ovunque le persone di buon senso che non intendono convivere in perpetua dissonanza cognitiva. Una narrazione talmente grottesca nei suoi intenti manipolatori che non può generare che angoscia e rabbia in chi la subisce. E tutto ciò è esasperato dal patente fine terroristico con cui le notizie sul particolare evento epidemico vengono trasmesse da mesi, con i relativi bollettini di guerra e i soffocanti toni allarmistici: ovunque e incessantemente. Con le voci atone di giornalisti che, con il loro italiano stentato, bambinesco, angosciano per l’orrore della loro vacuità.
L’angoscia e la rabbia di chi vede le proprie attività, la propria occupazione e le proprie sicurezza economiche spazzate via insieme ai propri diritti – diritti che hanno reso fieri gli europei di essere tali – vengono alimentate senza sosta dalla manipolazione mediatica che, proprio perché non chiaramente razionalizzata, ineffabile, aggiunge un ulteriore peso destabilizzante sulla psicologia delle masse: le persone non si sentono semplicemente angosciate e terrorizzate dalle notizie, ma sono altresì angosciate e oltremodo arrabbiate per sentirsi inconsciamente prese in giro.
Il pubblico tende quindi a frazionarsi in due grandi gruppi: il primo è formato da coloro in cui l’angoscia prevale, in cui il terrorismo mediatico si trasforma in nevrosi, psicosi o comunque in un carico emotivo che non permette di mettere in discussione la propaganda, ovvero l’autorità, ovvero la fonte della propria destabilizzazione. Costoro sono le persone psicologicamente più vulnerabili, più indottrinate per eccesso di consumo di prodotti mediatici, o per aver frequentato percorsi di studio, anche lunghi, non seguiti da un raffinamento culturale. In entrambi i casi l’elaborazione delle paure non avviene perché non viene messo in discussione ciò che dà sicurezza: rispettivamente il paternalismo dei media, e quello che trova eco nel principio di autorità che pervade la carriera scolastica e universitaria. Le opinioni abbracciate per appartenenza a un partito, movimento, comunità sociale ecc. sono comunque riconducibili all’indottrinamento dei media di massa e dei percorsi formativi. A questo gruppo appartengono coloro che agiscono più o meno inconsciamente negli interessi delle forze sociali dietro all’autorità.
Il secondo grande gruppo che si viene a creare è quello di coloro nei quali invece prevale la rabbia: mentre l’angoscia e la paura bloccano, creano socialmente forze reazionarie, la rabbia è in nuce rivoluzionaria.
Queste persone che si sentono manipolate, che vedono i propri interessi sempre frustrati qualsiasi sia la narrazione dominante, possono rivolgere la propria rabbia contro l’autorità e magari attivarsi politicamente.
Per sua natura, questa parte della società è oltremodo eterogenea, in quanto è proprio un rifiuto psicologico all’omologazione che aiuta a mettere in discussione la narrazione dominante, ovvero l’autorità.
Questo crogiolo di persone dissenzienti ha strutturalmente un grave problema nell’indirizzare la rabbia: l’autorità da cui queste persone si sentono destabilizzate e oppresse non si risolve in particolari rappresentanti del potere politico, e neppure in particolari rappresentanti del potere economico o religioso. L’impersonalità delle forze sociali dietro l’autorità non permette loro di identificare l’oggetto contro il quale scaricare la propria rabbia e agire nel modo più o meno opportuno. Il frazionismo nell’organizzare qualsiasi forma di resistenza coordinata è pertanto esasperato.
Morte le ideologie rivoluzionarie e i paradigmi cognitivi a loro associate, le masse dissenzienti diventano facilmente preda di deliranti contro-narrazioni che le stesse autorità diffondono. Il massacro mediatico del dissenso – ovvero della dialettica politica, ovvero della democrazia – ha così inizio, e, come in guerra, ovvero come quando la politica finisce, ogni colpo, ogni mezzo più inumano e barbaro è permesso.
Chiunque nel mondo dissenta rispetto alla narrazione e alle misure prese in seguito all’epidemia viene tacciato di «negazionismo»: cioè chi dissente viene qualificato in modo da essere associato a un simpatizzante neonazista che nega fatti storici incontrovertibili. Ovvero la propaganda presenta sé stessa come fonte di «fatti incontrovertibili» a cui solo dei soggetti pericolosi, dei pazzi, possono non credere.
È così che i media mettono in risalto nei loro titoloni che nelle manifestazioni dei «negazionisti» si vedono simboli «nazisti» oppure ci sono rappresentanti di organizzazioni «neofasciste». Dopo la «reductio ad Hitlerum» del dissenso viene schernita la psicologia del dissenziente, un ignorante, portatore della follia stramboide da cui nasce il Male Assoluto – il nazismo come dipinto dalla propaganda hollywoodiana – che «non crede alla scienza». La «scienza» è la propaganda fonte di «fatti incontrovertibili» a cui chi si oppone è uno stramboide «terrapiattista», un paranoico «complottista», un irresponsabile e un pericolo per la collettività «nomask», «novax», e via, fino a che la pericolosa follia del dissenziente diventa il «Male Assoluto»: un «negazionista» come colui che nega l’Olocausto. Ovvero viene rappresentato come un criminale nazista che non ammette le proprie responsabilità per gli orrori commessi a causa della sua follia.
(Si noti che lo stessa sistema di potere che ha creato il nazismo e ha negato per tutto il dopoguerra le proprie responsabilità per le tragedie delle seconda guerra mondiale, è il medesimo che oggi taccia di nazismo le forze a lui antagoniste).
Ed è così che coloro che appartengono al primo gruppo sociale individuato, bloccati e soffocati dall’angoscia, scaricano la loro rabbia repressa – non elaborata – non contro le forze oppressive, non usano i propri strumenti culturali per analizzare gli accadimenti che li fanno star male; rivolgono i loro «due minuti d’odio» giornalieri contro i pericolosi stramboidi che dissentono: contro i «terrapiattisti», i «novax», i «nomask»: contro i «negazionisti». Tanto che tra gli stessi esponenti politici sostenitori del regime c’è chi ha affermato: «quel che mi permetto di fare qui è dire che ci sia una rivolta popolare contro chi ancora nega… bisogna combattere e non fare gli stupidi e gli irresponsabili negando… Faremo di tutto per arginare le follie, la vanità e l’egocentrismo di persone irresponsabili».
I media dicono di preoccuparsi dell’epidemia? Chiunque si preoccupa delle misure prese a causa dell’emergenza – ovvero chiunque propone un pensiero politico – viene diffamato, schernito. Perfino minacciato, ascoltando le dichiarazioni del segretario di un partito al governo che incita alla «rivolta popolare» contro chi dissente.
La difficoltà di chi fa una riflessione politica nell’incanalare proficuamente la rabbia tramite le istituzioni, per mezzo di una manifestazione di piazza o grazie a forme di sindacalizzazione, spinge questa eterogenea parte di cittadini a cercare l’agorà virtuale dei «social», su Internet, in cui può sfogarsi ed esprimersi: magari provare a influenzare quella che una volta era chiamata «opinione pubblica», prima che il regime schiacciasse tutto ciò che fosse «pubblico» e democratico, a partire dalle «opinioni».
Ed ecco che il sacro fuoco della rabbia – l’ardore del dissenziente – viene continuamente soffocato tramite la minaccia di essere censurato per «hate speech», per «incitamento all’odio»: per essere un «odiatore».
Il messaggio dell’autorità è chiaro: «Non dovete arrabbiarvi, dovete avere paura».
Non dovete odiare i vostri oppressori e reagire, ma dovete essere terrorizzati ed accettare qualsiasi sopruso: in silenzio (immobili e ben distanziati, magari con la mascherina e le mani in vista…).
Mano a mano che queste vacue, terribilmente totalitarie qualifiche vengono usate come strumento di repressione del dissenso da parte dei media, anche il gruppo degli oppressi che per paura, per insicurezza, non mette al centro delle proprie riflessioni sull’emergenza gli aspetti politici, economici e sociali, ma si limita a rispondere pavlovianamente alle manipolazioni della propaganda, usa questi espedienti (a)dialettici per tacitare – rabbiosamente! – coloro che la propaganda afferma essere l’origine delle loro angosce: gli stramboidi, gli ignoranti de «la scienza», i pericolosi «nagazionisti» a cui togliere il servizio sanitario o il voto. Senza rendersi conto di contribuire a censurare e deprivare di tali diritti se stessi, visto che l’autorità ha pure ridotto a un putrido relitto fascista il concetto di «identità»: l’identità nazionale e di classe. Ovvero la coscienza di essere parte del medesimo gruppo sociale, di condividerne gli interessi, e di essere oppressi per motivi di classe (paludati mediaticamente da grandi narrazioni climatologiche, demografiche, catastrofiste…). Dove non c’è identità non c’è solidarietà.
E così, man mano che, come dicevamo, queste vacue e diffamatorie qualifiche entrano nell’uso comune, il guinzaglio alla libera manifestazione ed espressione delle proprie idee si accorcia, insieme alla possibilità di perseguire i propri legittimi interessi. L’uso del termina «negazionista» va ben al di là della manifestazione di un profondo disprezzo della Shoah, al limite dell’antisemitismo: è il profondo disprezzo per qualsiasi dialettica politica, per qualsiasi sacralità e dignità della personalità umana che si realizza nella vita pubblica.
Le autorità si erano già portate avanti nel giugno del 2016, legiferando affinché il «negazionismo» fosse reato, nonostante anche illustri esponenti della comunità ebraica avessero manifestato il proprio dissenso.
Non è difficile capire in che direzione si stia andando.